La scelta della sostenibilità non è economia invisibile

In questi tempi difficili per la società e l’economia del nostro vecchio continente, puntare su “asset intangibili” è un modo per molte imprese per rispondere all’urgenza di superare il “business as usual”, permettendo di delineare un percorso progressivo ma reale di uscita dalla crisi. Si definiscono come asset intangibili elementi cosi diversi come il marchio, […]

In questi tempi difficili per la società e l’economia del nostro vecchio continente, puntare su “asset intangibili” è un modo per molte imprese per rispondere all’urgenza di superare il “business as usual”, permettendo di delineare un percorso progressivo ma reale di uscita dalla crisi.

Si definiscono come asset intangibili elementi cosi diversi come il marchio, la leadership, il grado di soddisfazione, integrazione nelle decisioni e valorizzazione delle risorse umane, la capacità di innovare nell’organizzazione e nella ricerca di prodotti e servizi, il design, la bellezza; elementi non fisici, insomma, ma che rappresentano ormai una porzione estremamente rilevante del valore di un’impresa.

La scelta della sostenibilità, e cioè una cultura di impresa che rifiuta sistematicamente di contrapporre le ragioni dell’economia a quelle dell’ecologia e anzi fa un punto di forza della loro sinergia, é un elemento che già figura da anni nella lista degli invisibili per molte imprese.
Dalla scelta di organizzare la produzione e il lavoro in modo più attento alle conseguenze sull’ambiente e sulla vita delle persone, si è venuta creando una vera e propria industria che oggi non è più di nicchia e, soprattutto, non è più basata solo su un approccio “militante” ma sempre più su una chiara convenienza economica e un potenziale di sviluppo molto importante.

Il modello economico fondato sull’eco-sostenibilità tocca già oggi numerosi settori, dall’energia, all’agricoltura, ai trasporti, all’edilizia, alla gestione delle aree naturali, al turismo sostenibile, alla cultura e l’arte, ai servizi urbani (rifiuti, assistenza sociale, urbanistica, acqua). Comprende anche lo sforzo per riconvertire l’industria manifatturiera matura o energivora – dall’auto, alle acciaierie, all’industria chimica. Molti di questi settori hanno saputo rispondere meglio degli altri alla crisi, anche in Italia, come ben dimostra il rapporto annuale sulla Green Economy di Symbola. Insomma, diventa sempre più chiaro che c’è ed è misurabile il valore per le imprese di scelte strategiche che puntano a un diverso modo di produrre.

Ma per diventare un “asset”, e cioè un elemento che contribuisce alla creazione di valore reale e non solo una specie di medaglietta “trendy”, è molto importante che l’ambiente nel quale l’impresa stessa si muove riconosca esplicitamente il fatto che la scelta di investire “verde” abbia una utilità sociale da valorizzare.

Insomma, è più facile per le imprese – come per le persone – scegliere di organizzarsi per diminuire l’uso delle risorse naturali, di investire su produzioni che puntano sulla qualità piuttosto che sul basso costo, di fornire servizi e prodotti che ci rendono meno dipendenti dai combustibili fossili se è chiaro che gestire il cambiamento climatico è affare di tutti, se leggi, regole, incentivi e disincentivi rendono attraente e conveniente ridurre i consumi, cambiare le nostre scelte di acquisto, il nostro modo di abitare, di scaldarci, di muoverci, di alimentarci.

Se questo ambiente favorevole non c’è o, come in Europa e in particolare in Italia, i segnali che arrivano dalle autorità e dall’opinione pubblica sono contraddittori e irregolari (incentivi alle rinnovabili sì, però anche agli inceneritori e alle trivelle, sì a qualche contributo per le piste ciclabili, ma molto di più ai concessionari autostradali e all’autotrasporto, sì ad usare l’autobus o il treno, ma che bello arrivare ovunque in auto, sì a fare una casa che non consuma energia, ma è impossibile trovare una banca che ti fa credito per commerciarla, e così via) le possibilità che questo tipo di “asset intangibili” non siano una scelta di un manipolo di virtuosi ma un’opzione in grado di creare un valore importante e riconosciuto sono ovviamente molto più ridotte e rimangono una scelta meritoria, ma non in grado di fare la differenza in termini di competitività e occupazione.

Questo elemento di “contesto” è molto rilevante; dalla mia postazione europea noto da qualche anno due tendenze interessanti da questo punto di vista; da un lato, il ruolo di leadership “culturale” e normativa dell’Europa in materia di sostenibilità è in netto calo e altri attori e mercati si manifestano come destinatari interessati e importanti di tecnologie e prodotti verdi di imprese europee o che operano in Europa.

Tanto per fare qualche esempio nel settore del risparmio energetico, con il quale ho a che fare quotidianamente, i prezzi dell’illuminazione a LED è scesa al 2% del suo livello rispetto ai prezzi del 2001 e costituisce il 34% delle vendite totali di Philips Lighting. Eppure la penetrazione nel mercato in Europa è in diminuzione ed è oggi minore che in Asia (15% contro 17%).
La società tedesca di isolamento Knauf ha appena chiuso la sua fabbrica in Italia e punta su Stati Uniti o Malesia a causa della mancanza di certezza sul futuro della domanda europea e di una normativa sull’efficienza energetica “stop and go”. E, una piccola società di software britannica, il cui prodotto “night watch” spegne PC inutilizzati, porta ormai da anni a ingenti risparmi per i suoi clienti con un prodotto che costa 15 dollari, ma vende per l’80% fuori dall’UE.
La stessa cosa vale per la società danese Danfoss, che produce impianti molto avanzati nel settore del riscaldamento e raffreddamento.

Dall’altro lato, e forse proprio a causa di questa situazione difficile, le imprese che puntano sulla sostenibilità sono sempre meno disponibili ad essere assimilate nel vasto mondo ”industria”, che tradizionalmente si contrappone a quello del lavoro e della società civile; sviluppano dei canali autonomi e sempre più organizzati di dialogo diretto con le autorità europee, cosa che pone spesso sia un problema di rappresentatività alle tradizionali associazioni di categoria, come per esempio Business Europe, che un’opportunità di alleanze interessanti fra organizzazioni non governative e attori economici, portatrici anch’esse di nuovi modelli di organizzazione e produzione.

In conclusione, la scelta strategica della sostenibilità come “asset intangibile”, ma utile e misurabile per le imprese, esiste, ma è ancora sufficientemente diffusa. Penso che questo sarà possibile in tempi brevi se il quadro politico e normativo sarà in grado di coglierne meglio il potenziale positivo e facilitarne così lo sviluppo.

[Credits Photo: Flickr]

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