Lavorare meno per produrre di più: i dubbi sull’esperimento svedese

Meno lavoro uguale più produttività e migliore qualità della vita. L’equazione arriva dalla Svezia, dove alcune realtà aziendali stanno sperimentando la giornata lavorativa di sei ore al posto di otto. Un tentativo era già stato fatto negli anni novanta, ma poi l’esperimento era stato sospeso. Motivo: i costi eccessivi per la collettività. Il sistema, infatti, […]

Meno lavoro uguale più produttività e migliore qualità della vita. L’equazione arriva dalla Svezia, dove alcune realtà aziendali stanno sperimentando la giornata lavorativa di sei ore al posto di otto. Un tentativo era già stato fatto negli anni novanta, ma poi l’esperimento era stato sospeso. Motivo: i costi eccessivi per la collettività. Il sistema, infatti, prevede il mantenimento dello stipendio pieno, a fronte di un impegno giornaliero inferiore. Insomma, per i lavoratori sembra essere la soluzione perfetta. Ma lo è anche per l’economia di uno stato? Funzionerebbe oggi in Italia?

Lavorare meno e avere più tempo libero ma senza diventare più “poveri”. È il sogno di quasi tutti i lavoratori. In Svezia c’è chi sta provando a trasformarlo in realtà, attraverso la sperimentazione della giornata lavorativa di sei ore a stipendio pieno.  È il caso di Göteborg, dove gli uffici comunali, una casa di cura, la fabbrica Toyota (quest’ultima da ben tredici anni) e varie altre imprese hanno ridotto l’orario di lavoro a trenta ore settimanali. Il risultato: crescita dei profitti e riduzione delle assenze e del turnover fra i dipendenti, che si dichiarano più motivati, concentrati e “felici”. D’altronde oggi si viaggia verso forme di lavoro sempre più flessibili, sia nei tempi che nei luoghi, e orientate ai risultati. Eppure le perplessità, in termini di costi ma non solo, rendono per ora il “modello svedese” lontano da una più ampia diffusione.

Abbiamo chiesto il parere di Donato Speroni, giornalista esperto in economia e statistica che ha un blog (Numerus) sul sito de Il Corriere della Sera: “Tale modello è positivo, ma insostenibile nel breve periodo, in quanto rallenterebbe la timida ripresa in corso. In particolare, esso troverebbe grosse difficoltà di applicazione in un Paese come il nostro, caratterizzato da un’economia poco innovativa, da una classe imprenditoriale non particolarmente brillante e da sindacati poco coscienti dei problemi del futuro”. Ma i dubbi sul successo dell’orario ridotto non riguardano soltanto l’Italia. Per Speroni “ridurre la giornata lavorativa senza ritoccare gli stipendi può funzionare in situazioni specifiche. In una prospettiva globale, se il Pil mondiale cresce poco, l’offerta di lavoro da parte delle famiglie aumenta a un ritmo maggiore a causa della demografia, dell’esodo delle campagne e dall’incremento del lavoro femminile, e la tecnologia sostituisce ulteriormente la manodopera, le soluzioni non possono che essere o una ridistribuzione del lavoro con orari minori e salari minori per tutti, oppure una sua concentrazione con l’aumento delle diseguaglianze”. Inoltre “l’aumento della produttività – aggiunge – non è una conseguenza così scontata, soprattutto se parliamo delle professioni creative, che prescindono da orari di lavoro precisi”.

Ma attenzione: se pure si producesse di più, non vorrebbe dire necessariamente vivere meglio. Il benessere di una popolazione non è proporzionale al suo Pil. Donato Speroni cita l’esempio del paradosso di Easterlin, in base al quale, quando un paese povero aumenta il Pil pro capite, aumenta la felicità fino a un certo punto; mentre oltre un certo livello il reddito non crea più felicità ma la distrugge. Alle misurazioni del progresso umano alternative al Pil Speroni ha dedicato un libro, “I numeri della felicità. Dal Pil alla misura del benessere”. E sulla stessa lunghezza d’onda, all’interno dell’Ocse, un team ha elaborato il Better Life Index, uno speciale indice del benessere. Tra gli indicatori scelti per misurare il livello di benessere della popolazione, c’è proprio l’equilibrio lavoro-vita, a testimonianza di quanto questa sfida sia cruciale per la società.

“Non possiamo prevedere quale sarà il benessere del futuro. Ma – afferma Speroni – è inevitabile che cambi il modo di consumare. Oggi consumiamo le risorse di un pianeta e mezzo. Probabilmente domani, grazie a nuove forme come lo sharing, si potrà viver bene avendo bisogno di meno”. E quindi anche lavorando meno. In linea teorica la giornata lavorativa da sei ore dovrebbe migliorare la qualità della vita. Ad esempio ci sarebbe più tempo da dedicare a se stessi, alla famiglia e agli amici; e gli incarichi quotidiani potrebbero essere più equamente distribuiti fra uomini e donne. Ma è anche vero che il lavoratore potrebbe essere più stressato per la necessità di spalmare su un tempo inferiore lo stesso carico di lavoro.

A prescindere dal suo impatto sulla produttività e sulla qualità della vita, la riduzione dell’orario lavorativo – come sottolineato dal nostro intervistato – sembra essere “la risposta a una tendenza mondiale”. Secondo uno studio dei futurologi dell’organizzazione internazionale Millennium Project, da oggi al 2050 assisteremo infatti a un progressivo aumento della disoccupazione indotto dalle nuove tecnologie, con la scomparsa di una grande percentuale degli attuali lavori. Più o meno lo stadio avanzato di quello che ipotizzava negli anni trenta l’economista John Maynard Keynes, ovvero che l’avvento della tecnologia nei paesi sviluppati avrebbe ridotto il lavoro a sole tre ore al giorno (quindici settimanali).

In questa chiave, la riduzione della giornata lavorativa potrebbe essere letta non più solo come una strategia per ottimizzare i risultati e favorire il benessere, ma anche e soprattutto come una progressiva necessità. “La sfida dei prossimi anni – prevede Speroni – sarà proprio quella di conciliare i bisogni del breve termine con le esigenze del lungo periodo, tra le quali ci sarà la necessità di ripartire diversamente il lavoro e di far fronte a nuove disuguaglianze (secondo l’Oxfam nel 2016 l’1 per cento della popolazione possiederà più del restante 99 per cento)”. Tuttavia per il momento – con buona pace dei lavoratori – l’orario ridotto resta un’eccezione difficilmente istituzionalizzabile.

 

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