Lavoro, start up, innovazione secondo Francesco Morace

Il sociologo Francesco Morace, classe 1959, napoletano, è da sempre attento all’innovazione d’impresa: lui stesso ha fondato e dirige un istituto di ricerca che lavora in maniera innovativa sull’analisi degli scenari di mercato: il Future Concept Lab, che dal 1989 monitora e studia le tendenze di mercato e di consumo per poi tradurle in consulenza […]

Il sociologo Francesco Morace, classe 1959, napoletano, è da sempre attento all’innovazione d’impresa: lui stesso ha fondato e dirige un istituto di ricerca che lavora in maniera innovativa sull’analisi degli scenari di mercato: il Future Concept Lab, che dal 1989 monitora e studia le tendenze di mercato e di consumo per poi tradurle in consulenza manageriale rivolta al futuro delle aziende, siano esse piccole medie o grandi, e di qualsiasi settore. Oltre a dialogare con molte imprese italiane sul Made in Italy, Morace da sempre rivolge particolare attenzione alla dimensione internazionale, viaggiando e lavorando in numerosi Paesi del mondo: nel 2011, il Future Concept Lab ha aperto anche una sede in Brasile, a San Paolo, che si affianca alla sede principale di Milano.

In una fase storica in cui l’economia italiana mostra una persistente crisi, parlare con lui significa gettare lo sguardo avanti per vedere quali lineamenti avrà il futuro dell’imprenditoria italiana. «Le caratteristiche di velocità, intensità, innovatività e apertura alle energie giovani – spiega Morace – rappresentano elementi decisivi per svecchiare il sistema imprenditoriale italiano, molto ingessato e legato alla visione di una generazione matura che per quanto talentuosa non appare in grado di ottimizzare, ad esempio, il valore aggiunto delle nuove tecnologie digitali. Per questo motivo le start up possono avere un impatto decisivo sulla ripresa economica dell’Italia, integrando la grande capacità manifatturiera che ci caratterizza, e fornendo una freccia in più all’arco dei nostri talenti. Non possono da sole costituire una soluzione alla crisi, ma possono indicare un possibile cambio di marcia attraverso una alleanza generazionale, con una maggiore attenzione alle nuove tecnologie e all’economia dei servizi, dove siamo più deboli: il turismo, i trasporti, le smart city, per fare solo alcuni esempi».
Attività tradizionali ed innovative: come bilanciarle in maniera efficace? «Stiamo parlando di una dimensione di business che viene plasmata dalle opportunità dell’economia digitale, che non prevede la produzione di prodotti in serie ma piuttosto l’attivazione di nuove esperienze di vita. On-line e off-line non sono più in alternativa secca ma sempre più spesso tendono a convergere in una unica dimensione innovativa. È su questo terreno di incontro che dovremo giocare la nostra partita in futuro, nella relazione tra l’utile e il bello, con un occhio sempre molto attento alla qualità della vita».
E rispetto ad altri Paesi, il tessuto imprenditoriale italiano ha caratteristiche particolari, come ad esempio alcune mancanze di consapevolezza a tutti i livelli, dall’artigiano al noto imprenditore fino al sistema politico. «Dobbiamo andare oltre una certa visione passatista: ad esempio l’artigiano che sostiene di perdere l’anima se introduce la tecnologia nella sua attività. Ciò non è vero. Certamente, ci sono stati errori che derivano da una cultura tipicamente italiana, più difensiva rispetto all’innovazione. Ad esempio, sul manifatturiero siamo i migliori al mondo, e anche sulla meccanica fine siamo ai primi posti a livello globale. Il grande errore è stato non aver integrato questi nostri talenti e queste nostre capacità con le nuove tecnologie, non facendo entrare le nuove generazioni nel mondo produttivo e non insegnando loro la perizia manuale né assorbendo la loro vicinanza al mondo delle nuove tecnologie. Si tratta di un problema culturale di base: non avendo una tradizione come ad esempio quella anglosassone – in cui è più comune pensare all’innovazione partendo dalla tecnologia –, ci siamo fermati sperando di poter rimanere chiusi in azienda per sempre».

Ma al giorno d’oggi ci sono alcuni impegni che qualsiasi imprenditore o dirigente d’azienda deve mantenere se vuole produrre crescita felice sia nel business aziendale sia tra le persone che lavorano nell’impresa. «Bisogna conciliare tradizione e innovazione, senza rinunciare al proprio DNA e alla propria capacità di fare, e miracolosamente questi tratti li abbiamo ancora in Italia, ma al tempo stesso bisogna avere la generosità di abbracciare nuove culture più vicine al mondo digitale e a una visione cosmopolita del mondo. È necessario aprirsi al mondo e mantenere un dialogo permanente con le altre culture e con le altre generazioni, assumendo forze nuove e facendo un investimento di coraggio sul futuro. L’altro grande tema è quello dell’imparare a lavorare in squadra: noi italiani siamo ancora molto legati all’idea di personalismo e nel mondo del lavoro italiano non è diffusa una cultura di condivisione».
Lavoro, start up, innovazione: tre grandi aree sulle quali anche l’Italia potrà dire la sua, se riuscirà a giocare la partita che è già in corso nel mondo fra molti Paesi. Per chiunque abbia una attività imprenditoriale, innovare non è più una opzione ma una necessità per dare un futuro alla propria impresa. D’altra parte, bisogna anche chiedersi come evolverà la vita delle persone: «Come spiego nel mio libro più recente – Crescita Felice. Percorsi di futuro civile, Egea 2015 –, lo stile di vita trendy è destinato ad essere sostituito, nel consumo, dall’occasione di vita felice, che sempre più frequentemente si dimostra la vera esigenza delle persone. Si tratta quindi di individuare nuove occasioni o di reinterpretare quelle già esistenti. In particolare, tecnologie e viaggi saranno tra i consumi più praticati per rafforzare l’esperienza di felicità personale».

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