La leadership del passo indietro che fa bene all’Industria 4.0

Imprenditrice di seconda generazione a capo di uno dei player di riferimento internazionale nella progettazione e creazione di macchine confezionatrici per liquidi alimentari, Antonella Candiotto parla a ragion veduta di un tema tanto intenso quanto scivoloso come quello dell’Industria 4.0. Lei, che non si risparmia in impegni istituzionali assunti nel suo Veneto e che si […]

Imprenditrice di seconda generazione a capo di uno dei player di riferimento internazionale nella progettazione e creazione di macchine confezionatrici per liquidi alimentari, Antonella Candiotto parla a ragion veduta di un tema tanto intenso quanto scivoloso come quello dell’Industria 4.0. Lei, che non si risparmia in impegni istituzionali assunti nel suo Veneto e che si mette costantemente in viaggio per conoscere da vicino il tessuto industriale internazionale, non fa sconti sulla necessità di chiarezza e su alcuni errori di fondo. Le persone al primo posto, sempre.

La premessa è d’obbligo. Una sua definizione personale di Industria 4.0.

Parlando di Industria 4.0 generalmente ci si riferisce a una serie di cambiamenti nei metodi di produzione (come si producono beni e servizi), una sorta di trasformazione o “Rivoluzione” Digitale che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa. A mio parere, prima di pensare alla semplice introduzione di tecnologie e sistemi digitali, l’evoluzione deve trattare un cambio di mentalità che passa per un’organizzazione del lavoro meno gerarchica, attenta alla motivazione delle persone e alla creazione del giusto contesto in cui possano esprimersi al meglio.

E’ un cambiamento dirompente, colpisce soprattutto la velocità con cui sta avvenendo. La disponibilità di tutte queste nuove tecnologie può aiutarci a vivere meglio e, perché no, magari anche a realizzare qualche sogno nel cassetto. Personalmente cerco di vivere i cambiamenti con positività e ottimismo, perciò la considero un’opportunità per tutti noi: come persone in primis ma anche come aziende.

Quanto e cosa manca, se manca, all’Italia affinché si completi il processo di Digital Transformation?

È inutile pensare di affrontare il cambiamento e il progresso senza favorire lo scambio e la creazione di nuova conoscenza. Il cambiamento in atto è dinamico, al contrario i programmi scolastici sono ancora troppo rigidi e di lento aggiornamento. Se non si pensa a creare la cultura e le competenze adeguate, l’evoluzione sarà notevolmente rallentata.

Serve dialogare molto con le Istituzioni per accelerare il processo di adeguamento dei programmi scolastici e universitari, puntando a una maggiore trasversalità e interdisciplinarità. Devono essere sviluppate le conoscenze utili per avere migliore operatività, gestione e coordinamento anche con gli altri reparti. Per esempio, in azienda siamo alla ricerca di ingegneri meccatronici che non siano solo capaci di progettare un software, bensì di saperlo declinare secondo basi di meccanica, con capacità di problem solving preventivo e con propensione al lavoro in team, per essere in grado di ascoltare e anticipare le richieste degli altri dipartimenti.

Fortunatamente vedo un cambiamento positivo, una maggiore apertura al dialogo da parte sia delle aziende sia del mondo accademico. E’ un percorso che dobbiamo fare insieme con impegno e disponibilità da entrambe le parti.

Esiste una statistica interna su quante aziende siano pronte alla digitalizzazione dei processi richiesta dal Governo?

Liberare l’ingegno” è la ricerca realizzata da Federmeccanica sul grado di digitalizzazione delle imprese e sul livello di adozione delle nuove tecnologie abilitanti tra cui, appunto, meccatronica, robotica, IoT, Big Data, cloud, sicurezza informatica, stampa 3D, simulazione, nanotecnologie, materiali intelligenti.

Ne risulta che il 64% delle imprese intervistate ha dichiarato di aver adottato almeno una delle tecnologie, mentre il 36% si è dichiarato “non adopters”. Dai dati raccolti, gli “adopters” sono principalmente aziende molto legate all’export, che investono in ricerca e formazione, collaborano con le università e puntano su qualità ed innovazione di prodotto. Gli “adopters” sono fiduciosi e credono in un approccio graduale, vogliono investire in nuove tecnologie e sfruttarne i vantaggi derivanti. A questo proposito si ricollega il piano Calenda sull’Industria 4.0, che incentiva gli investimenti in questo ambito.

L’obiettivo ora sono i “non adopters”, c’è bisogno di vincere il loro scetticismo e diffondere la cultura dell’approccio graduale.

Quali sono i modelli tedeschi da cui il Governo ha estratto i principi per definire il programma di Industry 4.0 e come potrebbero integrarsi rispetto al contesto italiano?

Il sistema tedesco parte da un concetto di base molto importante: le cose bisogna farle insieme, in un clima di collaborazione tra stato ed imprese. Fortunatamente è una visione condivisa, che sta facendo presa tra Istituzioni e imprese italiane coinvolte nel processo. Il piano d’azione tedesco (Industrie 4.0) è sponsorizzato a livello federale con il coinvolgimento di grandi player industriali e tecnologici.

Anche la cabina di regia del piano Calenda vede il connubio tra il mondo economico e imprenditoriale: le decisioni vanno prese insieme, nell’interesse soprattutto delle aziende che devono crescere e creare occupazione.

Strategico il tema scuola-competenze, che vede nuovamente i tedeschi in prima linea. Il loro sistema scolastico non contempla la concezione di studio fine a se stesso, ovvero un ragazzo che frequenta semplicemente un liceo o istituto tecnico/professionale senza mai aver esperienza diretta del mondo lavorativo o delle realtà aziendali. Visite in azienda e attività pratiche sono incluse fin da subito nel programma di studi, monitorando il loro impegno attraverso i docenti che seguono gli studenti anche durante il percorso operativo. Gli imprenditori e i manager comunicano con la scuola per interessarsi degli studenti, verificare se studiano e se applicano il know-how ricevuto.

E’ un lavoro di squadra che funziona perché costringe lo Stato a farsi carico (a costi ridotti) delle imprese e le imprese ad occuparsi di cosa pubblica (in tasse dirette e contributi d’iscrizione, non con donazioni filantropiche).

Un contributo importante in Italia lo sta dando il Cluster Tecnologico Nazionale Fabbrica Intelligente, di cui anche Galdi fa parte, nel proporre progetti concreti di ricerca e innovazione in grado di indirizzare la trasformazione del settore manifatturiero italiano.  L’obiettivo è creare una comunità manifatturiera nazionale stabile e più competitiva, atta a collegare le politiche di ricerca nazionali e regionali con quelle internazionali.

Secondo lei Industry 4.0 e automazione spinta aumenteranno la disoccupazione, le macchine sostituiranno l’uomo? Utile anche la sua partecipazione attiva ai progetti per capire quali piani sono previsti per reintegrare coloro che oggi svolgono lavori manuali e in che modo c’è da lavorare sulle competenze.

Non sarà così: il lavoro, al contrario, ci sarà. Ci sarà se realizzeremo gli investimenti in tecnologia indispensabili per aumentare la produttività dei nostri collaboratori e se ci occuperemo della loro formazione e valorizzazione. Due passaggi obbligati per rimanere competitivi. Le risorse umane, o almeno una parte considerevole di esse, saranno sempre più qualificate e sollevate da lavori a basso valore aggiunto o ripetitivo. Le attrezzature e i macchinari diventeranno sempre più facili da utilizzare e sempre più interattivi con l’uomo.

La fabbrica intelligente, infatti, è una fabbrica iperflessibile, capace cioè di adattarsi ai desideri del consumatore-utente perché dispone al suo interno di collaboratori che sanno gestire la complessità. La risorsa umana diventa un fattore essenziale perché solo l’intelligenza e la capacità di adattamento delle persone permettono di gestire la crescente complessità.

Dal 2004 i robot nelle aziende europee sono raddoppiati, con Ungheria e Repubblica Ceca capofila. Uno smartphone prodotto in milioni di pezzi tutti uguali può essere assemblato da robot ma se parliamo di manifattura di macchinari costruiti su commessa e su specifica richiesta del cliente, con personalizzazione spinta e messa a punto, serve personale specializzato.

Industry 4.0 riguarderà solo grandi aziende a forte meccanizzazione o anche PMI?

Come anticipato, per me Industry 4.0 è prima di tutto un cambiamento culturale e un’opportunità di crescita per le PMI, che va approcciata in maniera graduale, ripensando ed efficientando i processi prima di digitalizzarli.

Per sfruttarne a pieno le potenzialità, penso sia utile mettersi un po’ in discussione e provare a innovare il proprio modello di business. Chiedersi chi sono i clienti e che esperienza di acquisto vogliono fare, qual è il valore che la nostra azienda crea e inventare nuovi modi di produrre piu’ agili ed efficienti. Insomma, farsi tante domande per migliorare costantemente e offrire prodotti e servizi sempre più evoluti, di qualità e personalizzati.

E’ un percorso che tutti siamo chiamati a fare, come persone, manager, lavoratori, imprenditori, non fa differenza la dimensione dell’azienda. Penso che i più capaci ed aperti ad affrontarlo siano i giovani, i cosiddetti Millennials, la nuova generazione digitale. Infatti questa nuova sfida è per i giovani talenti che hanno voglia di spendersi nel proporre nuove idee e inventare nuovi modelli di business; nonché per imprenditori e manager illuminati che sapranno accogliere il cambiamento e fare un passo indietro, per abilitare una nuova leadership condivisa e dinamica, che cresce sperimentando nuovi modi di comunicare e arrivare ai clienti, mai pensati prima.

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