L’economista Giavazzi: “La Cassa Depositi e Prestiti? Con Lega-M5s sarà una nuova IRI”

“Il grande assente dal confronto fra Lega e M5S sul programma economico di un possibile governo è la crescita. Eppure quello è il punto centrale, perché il deficit italiano è un deficit di crescita. Quale che sia l’esito del confronto, è da lì che si deve partire. La crescita di un Paese, e quindi il […]

Il grande assente dal confronto fra Lega e M5S sul programma economico di un possibile governo è la crescita. Eppure quello è il punto centrale, perché il deficit italiano è un deficit di crescita. Quale che sia l’esito del confronto, è da lì che si deve partire. La crescita di un Paese, e quindi il benessere dei suoi cittadini, dipende dalla sua produttività, la quale a sua volta dipende dalle risorse di cui il Paese dispone e da come le impiega. Innanzitutto il lavoro”.

È l’incipit di uno degli editoriali che l’economista bocconiano Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera qualche giorno prima della formazione del governo Lega-M5S. Giavazzi, che non ha mai nascosto la sua formazione liberista e la sua forte avversione all’intervento dello Stato nell’economia, è da sempre un osservatore attento e meticoloso delle politiche economiche dei governi: da Silvio Berlusconi nel 2001 a Mario Monti nel 2011, da Matteo Renzi nel 2014 al governo Salvini-Di Maio. In qualche occasione il professor Giavazzi è stato interpellato anche come “consigliere del principe”. È per questo che Senza Filtro ha voluto ricostruire con lui le politiche economiche dell’ultimo decennio in Italia, o quantomeno i momenti di svolta delle politiche che hanno portato l’Italia allo stato attuale.

Prima di addentrarci nei meandri in questo esercizio di memoria, soffermiamoci per un attimo sulla cronaca politica. Me lo dica francamente: che cosa ne pensa dei nuovi arrivati a Palazzo Chigi? A suo parere dove ci porterà la nuova politica economica annunciata agli italiani da Matteo Salvini e Luigi di Maio?

Vuole una previsione senza tanti giri di parole? A mio parere andranno a sbattere su un downgrade del debito pubblico. Basta andare sul sito della società di rating Moody’s: l’Italia è due livelli sopra la zona rischio. A scivolare si fa presto. E se così fosse la Banca Centrale Europea, che in questi anni ha finanziato il debito pubblico acquistando i nostri BTP, non potrebbe più acquistare i titoli di Stato italiani, con effetti assai pericolosi per i nostri equilibri finanziari e per l’economia reale. Non solo. La BCE non potrebbe neppure rinnovare i titoli a garanzia che ha in deposito. Si tornerebbe in una zona ad alto rischio come nel 2011.

Un quadro piuttosto inquietante. Non credo che i vincitori delle elezioni del 4 marzo saranno felici nel leggere queste parole. Ma io partirei da queste considerazioni per ricostruire le politiche economiche dell’ultimo decennio. Anzi, sa cosa le dico? Partirei a ritroso proprio dal governo Lega-M5S.

La prima osservazione che vorrei fare è che l’Italia ha almeno due problemi di carattere economico: un enorme debito pubblico e una produttività che non cresce da almeno quindici anni. Sia chiaro, non voglio dire che l’Italia non abbia risorse industriali in grado di affrontare le sfide che ci pone la globalizzazione dei mercati. Sostengo da tempo che il dualismo della nostra industria è a somma zero. Se diamo uno sguardo alla nostra struttura industriale possiamo constatare che la parte più produttiva è quella manifatturiera, fatta di piccole e medie imprese, fiore all’occhiello dell’Italia sui mercati nazionali e internazionali. È la nostra forza. Vi è poi l’altra parte della nostra economia, tra cui i servizi, il sud Italia e alcune grandi imprese a produttività negativa. La somma, come le dicevo, è uguale a zero.

Se questa è la diagnosi, come valuta la politica economica del governo Lega-M5S?

Se mi devo basare sul programma di governo il mio giudizio non può che essere negativo. Mi par di capire che il debito pubblico lo vogliono far crescere, non diminuire come ha fatto il precedente governo. Se si pensa di attuare le linee programmatiche annunciate in deficit è evidente che il debito salirà.

Si riferisce alla flat tax e al reddito di cittadinanza?

Certo, mi riferisco a quei due obiettivi programmatici. Tenga conto, tra l’altro, che la flat tax per le imprese esiste già: le aliquote stanno tra il 26 e il 27 per cento. Non c’è per le persone fisiche, e dai conti fatti costerebbe tantissimo. Il reddito di cittadinanza? A mio parere, a parte i costi, quello è un provvedimento che ci fa tornare a una visione statalista, agli anni in cui si pensava che l’intervento dello Stato potesse risolvere tutti i problemi, ma come tutti sanno è proprio in quegli anni che si è accumulato il debito pubblico italiano. Lo stesso discorso vale per la Cassa Depositi e Prestiti: leggendo i programmi si capisce che il nuovo governo ha intenzione di far diventare la CDP una nuova IRI. Un ritorno al passato assai rischioso.

Siamo dunque a una svolta radicale nella politica economica.

Rispetto al governo guidato da Matteo Renzi è certamente una svolta radicale. Renzi e Padoan erano riusciti a stabilizzare il debito. Al contrario, con il nuovo governo ci sono tutte le premesse perché il debito salga. Forse non ci si rende conto della pericolosità di questa strada.

Facciamo un passo indietro. Lei citava le politiche economiche dei governi Renzi e Gentiloni: soffermiamoci su questa esperienza di governo.

Se devo dare una valutazione dal punto di vista delle politiche economiche posso dire senza ombra di dubbio che erano sulla strada giusta. Il Jobs Act è stato la più importante riforma del mercato del lavoro del dopoguerra. Il governo Renzi è riuscito dopo anni a eliminare le banche popolari, e soprattutto a inaugurare finalmente una politica fiscale espansiva. Sono dati di realtà. Certo, c’era ancora molto da fare, ma la strada era quella. Non a caso il debito pubblico si era stabilizzato e il Pil è passato da meno due a più due.

Eppure gli italiani quel governo lo hanno bocciato sonoramente alle ultime elezioni politiche. Il nuovo governo è nato sulle ceneri di quello precedente, dopo una sconfitta clamorosa sulla riforma costituzionale. Dove hanno fallito?

Io mi sono fatto un’idea di quello che è successo. A mio parere il governo di Matteo Renzi non è riuscito a riformare la burocrazia: le ha dichiarato guerra e l’ha persa. Dobbiamo fare un passo indietro. Nel 1993 la legge Bassanini, sull’onda dello scandalo Mani Pulite, trasferì molti poteri dai politici agli amministrativi. Era un atto più che giustificato a quell’epoca, la politica era sinonimo di corruzione, gli unici garanti dello Stato erano proprio gli amministrativi. Ma da quel momento il potere di veto della burocrazia, in Italia già molto forte, diventò enorme, ostacolo per qualsiasi riforma. Le resistenze alla legge Madia che voleva riformare la burocrazia, togliendo il potere “temporale” agli amministrativi con la limitazione a sei anni degli incarichi burocratici, confermano la tesi che la burocrazia oggi è una casta inamovibile molto potente. I politici cambiano, gli amministrativi restano. Chiunque vorrà cambiare davvero e far crescere l’economia italiana dovrà fare i conti con il potere enorme della burocrazia.

Nel nostro breve viaggio a ritroso incontriamo il governo guidato da Mario Monti. Credo che sia il governo più impopolare degli ultimi anni. Lei che cosa ne pensa?

Dobbiamo partire da una premessa. Mario Monti, quando nel 2011 si è insediato al governo, ha trovato una situazione drammatica: la nostra economia era vicina al default, lo spread viaggiava sui 550 punti e i grandi investitori stavano cominciando a pensare che i nostri titoli fossero carta straccia. Era un governo di emergenza che non poteva mettere a punto strumenti di politica economica di medio-lungo periodo. Il governo Monti è riuscito a invertire la rotta ma è stato

costretto a fare tutto in grande fretta, utilizzando l’arma fiscale e una drastica riduzione dei costi, come nel caso della legge Fornero. Erano provvedimenti che tranquillizzavano i mercati, infatti lo spread scese a livelli fisiologici, ma che hanno ammazzato l’economia. La fase recessiva già in atto dal 2008 in quegli anni si è aggravata. Se non ci fosse stato il quantitative easing della BCE guidata da Mario Draghi oggi saremmo nei guai seri.

Un ultimo passo indietro all’epoca berlusconiana.

Direi che Berlusconi all’inizio della sua carriera politica aveva delle buone idee. Si è presentato agli italiani con la promessa di ridurre le tasse e aumentare i posti di lavoro. Tenga conto che nel 2001, quando Berlusconi è tornato al governo, l’economia italiana andava bene. Eppure, malgrado i buoni propositi, non si fece nulla. Le tasse non diminuirono e l’occupazione non aumentò, forse anche perché l’allora ministro Giulio Tremonti gli disse che era meglio non intraprendere quella strada di politica economica. Una riduzione delle tasse fu ritenuta insostenibile.

 

Photo credits: Imagoeconomica

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