La libertà condizionata di stampa

La classifica annuale di Reporters sans Frontières mette in evidenza il balzo in avanti del nostro Paese nella libertà di stampa, dal 77esimo posto nel 2016 al 52esimo posto nel 2017. Potrebbe sembrare un dato confortante, vista la situazione globale dell’informazione che, sempre secondo il rapporto dell’organizzazione, viene definita “molto grave”, con ben 21 Paesi classificati come […]

La classifica annuale di Reporters sans Frontières mette in evidenza il balzo in avanti del nostro Paese nella libertà di stampa, dal 77esimo posto nel 2016 al 52esimo posto nel 2017. Potrebbe sembrare un dato confortante, vista la situazione globale dell’informazione che, sempre secondo il rapporto dell’organizzazione, viene definita “molto grave”, con ben 21 Paesi classificati come “neri”.

Nonostante la risalita, però, nel capitolo del rapporto dedicato all’Italia si legge che “il livello di violenze contro i reporter (intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce, n.d.r.) è molto preoccupante” e che “i giornalisti subiscono pressioni da parte dei politici e optano sempre più per l’autocensura”.

I dati italiani di Reporters sans Frontières secondo Borrometi

Secondo il giornalista Paolo Borrometi, fondatore della testata di inchiesta “La Spia”, che ha contribuito allo scioglimento del comune di Scicli per infiltrazioni mafiose e vive sotto scorta a seguito delle aggressioni e delle minacce di morte ricevute, i dati della classifica di Reporters sans Frontières riguardanti l’Italia non sono totalmente attendibili: «Reporters sans Frontières fa guadagnare 25 posti all’Italia nella sua classifica annuale, ma solo perché tiene in considerazione la conclusione positiva del processo a carico di Gianluca Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, il Vatileaks. Il problema risiede nel fatto che il processo Vatileaks si è svolto nella Città del Vaticano e non in Italia, quindi questa forte risalita in classifica del nostro Paese non è del tutto corretta».

Borrometi concorda, invece, con la parte del rapporto che parla delle violenze e delle pressioni subite dai reporter: «Il problema dell’informazione, in Italia, è che continua a essere minacciata sotto diversi profili, come ad esempio quello delle “querele temerarie”. Un giornalista che fa un articolo può essere denunciato penalmente e citato in giudizio civilmente con una richiesta di danni, anche se queste querele dovessero essere reputate pretestuose; nei fatti il querelante non ha nessun onere, mentre invece il problema rimane per il giornalista, che si trova ad affrontare nella migliore delle ipotesi un procedimento di indagine e nella peggiore il processo vero e proprio». I “poteri”, infatti, come risposta alle inchieste molto spesso usano la querela per controllare e imbavagliare l’informazione libera.

I diversi profili delle minacce alla libertà di stampa

Un esempio di tali dinamiche è stata la denuncia presentata dai legali dell’ex sindaco di Roma Alemanno per diffamazione a mezzo stampa nei confronti di autori e produttori del docufilm I mille giorni di mafia capitale. A tal proposito l’Fsni e l’Usigrai si sono espressi sottolineando l’importanza dell’approvazione, da parte del governo, di una legge che tuteli la libera informazione dalle querele temerarie.

L’Italia, tra l’altro, è uno dei pochissimi Paesi europei che prevede il carcere per i giornalisti nell’esercizio delle proprie funzioni, e questa, sempre secondo Borrometi, è «un’ulteriore minaccia alla libera informazione, anche se il tentativo di controllo che mi tocca più da vicino è quello che riguarda le minacce della criminalità organizzata di stampo mafioso. Questo è un problema enorme che aumenta di anno in anno e in maniera sempre più pressante. Qualche anno fa era impensabile che una troupe televisiva andasse in un paesino del Sud a fare un’inchiesta giornalistica e trovasse qualcuno che, uscendo dalla porta di casa, le intimasse di andare via con aggressioni anche fisiche. Oggi invece tutto questo è alle cronache dei nostri giorni. Le minacce di stampo mafioso si manifestano soprattutto nei territori di frontiera, quelli in cui sono più lontani i riflettori accesi delle grandi testate giornalistiche e dove illuminare il crimine è sempre più complesso. Io in una provincia siciliana, dunque molto lontano da Roma, cercavo solo di fare il mio lavoro da giornalista, ed è lì che ho incontrato le minacce, le aggressioni fisiche e gli episodi intimidatori».

Il caso di Daphne Caruana Galizia, giornalista splendida e libera

Il suo lavoro cercava di farlo anche Daphne Caruana Galizia, nota giornalista maltese che il 16 ottobre del 2017 è stata uccisa nell’esplosione della sua auto, nella quale era stato collocato un ordigno. La Galizia lavorava nel giornalismo dal 1987. Era stata editorialista e redattrice per il Sunday Times of Malta e per il Malta Indipendent, ma negli ultimi anni la sua notorietà era legata soprattutto al suo blog, “Running Commentary”, seguitissimo e pieno di inchieste e attacchi molto duri ai più importanti politici locali. Era conosciuta soprattutto per le indagini legate alle implicazioni maltesi dei Panama Papers, documenti riservati che rivelavano una rete internazionale di società off shore e i loro beneficiari.

«Il caso di Daphne non è isolato purtroppo», spiega Borrometi. «Io la conoscevo bene e so che lei aveva denunciato da tempo le minacce che riceveva. Vorrei segnalare il fatto che Malta non solo dista pochi km in linea d’aria dalla Sicilia, ma si trova anche in Europa, ne è la porta. Eppure ancora oggi, proprio in Europa, nel 2017 i giornalisti vengono minacciati, sono sotto scorta e saltano in aria». La Galizia era l’emblema del giornalismo 2.0, quello che usa il digitale per informare. Ma Internet è davvero in grado di garantire una maggiore libertà di informazione rispetto alle testate giornalistiche tradizionali?

Analogico vs digitale: chi informa meglio?

Antonio Pavolini, uno dei primi podcaster e blogger italiani, esploratore di nuovi trend e modelli di business della transazione digitale e autore dell’Ebook Oltre il Rumore – Perché non dobbiamo farci raccontare Internet dai giornali e dalla TV (Informant, 2016), ha le idee molto chiare: «Premettendo che non esiste l’Internet buono, che lascia il giornalista totalmente libero, e l’analogico su carta cattivo, dove regna il controllo assoluto, bisognerebbe smettere di parlare di digitale e analogico e porre l’accento, semmai, sul vero problema che si è avuto in Italia con gli editori tradizionali, dove non ci sono stati editori puri, ma grandi gruppi industriali proprietari dei giornali. La sublimazione di questo fenomeno è avvenuta nel periodo del berlusconismo, ma ancora oggi in larga parte funziona così».

Infotainment e modelli di business commerciale sono i nemici dell’informazione

Pavolini, quindi, crede che oggi l’informazione sia controllata dalle logiche di mercato e dal bisogno dei media tradizionali di sostentarsi economicamente in un periodo di crisi nera. «L’unica cosa, ormai, in grado di sostenere l’informazione tradizionale è l’infotainment che non dà alle persone degli strumenti per farsi un’idea su dei fatti ma cerca semplicemente di agganciare audience in qualsiasi modo, prescindendo dal lavoro di giornalista e dalla verità. Il controllo dell’informazione, dunque, è il modello di business in crisi che spinge il giornalista a fare dell’infotainment perché è l’unica cosa che fa vendere i giornali e accumula un po’ di audience anche nei talk show televisivi, quindi il vero nemico dell’informazione oggi è il modello di business commerciale. Quando i grandi gruppi editoriali dicono di essere gli unici a poter finanziare e proteggere i grandi giornalisti d’inchiesta, perché Internet non può permetterselo, cercano solo di crearsi una foglia di fico per parlare ai festival in termini di bravi media vecchi contro cattivi media giovani. La cosa affascinante è che questi grandi editori, che finanziano delle inchieste – poche, a dire il vero, e che comunque non sostengono il modello di business del giornale che, come ho già detto, si ripaga in un altro modo – si nascondono dietro i grandi giornalisti di inchiesta ancora esistenti per demonizzare Internet e convincere che la vera informazione si fa solo sui giornali. Come abbiamo potuto appurare con la vicenda di Daphne Galizia, invece, nei paesi in cui l’informazione non è libera gli unici a fare veramente informazione non sono più giornalisti integrati dentro testate, quindi il tema della protezione della testata è ormai completamente scavalcato».

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