Licenziati da un algoritmo. Un assaggio della reputation economy?

Le piattaforme digitali di food delivery sono da tempo al centro di polemiche in seguito alle proteste dei loro lavoratori, i cosidetti rider, circa un milione di persone che contestano le condizioni di lavoro praticamente prive di tutele. Al centro della polemica c’è un calcolo: l’algoritmo “reputazionale” in base al quale a ogni rider viene […]

Le piattaforme digitali di food delivery sono da tempo al centro di polemiche in seguito alle proteste dei loro lavoratori, i cosidetti rider, circa un milione di persone che contestano le condizioni di lavoro praticamente prive di tutele. Al centro della polemica c’è un calcolo: l’algoritmo “reputazionale” in base al quale a ogni rider viene assegnato un punteggio che determinerà poi il numero di ordini da servire, e quindi, di fatto, la possibilità di guadagnare. Il punteggio è calcolato in base a un mix di fattori per valutare l’efficienza del lavoratore nell’offrire un buon servizio al cliente, come velocità, numero di consegne effettuate e valutazione assegnata dal cliente. Solo il cliente però conosce questo punteggio, i rider no.

I rider lavorano con i propri mezzi, per i quali, raccontano molti di loro, ricevono un rimborso solamente parziale che spesso non copre neanche la metà delle spese sostenute. Se tardano una consegna per fattori esterni, come il traffico, il loro punteggio viene abbassato e la prossima volta che si renderanno disponibili tramite l’app potrebbero anche aspettare per ore un ordine che non arriverà mai, finché il loro account sarà definitivamente bloccato. “Sloggati” è il nuovo termine per dire “licenziati”.

Punteggio reputazionale, addio? La soluzione proposta da Di Maio

L’algoritmo come nuovo responsabile delle risorse umane, quindi, in un processo in cui di umano è rimasto veramente poco. Qualche giorno fa, dal tavolo sul lavoro tra i rappresentanti delle piattaforme di delivery e il ministro Luigi Di Maio, è uscita la proposta di un contratto collettivo nazionale per i rider che preveda tutele contributive e assicurative, insieme a un salario minimo. Inoltre Di Maio ha annunciato l’intenzione di eliminare il punteggio reputazionale, invocando “il diritto a non dipendere da un algoritmo”.

Siamo sicuri che questo basti ad archiviare il tema? E siamo sicuri che il tema debba essere archiviato? La reputazione è già da tempo un agente attivo, ma silenzioso, dell’economia: le valutazioni dei clienti direzionano le scelte di acquisto di altri clienti, le informazioni che un datore di lavoro può trovare online sui suoi dipendenti possono fargli perdere il lavoro (le cronache si sprecano), i recruiter decidono di escludere i candidati ancor prima di un colloquio di lavoro per quello che hanno letto online sul loro conto. La reputazione influenza già il mondo del lavoro e l’economia, ma spesso lo fa in modo silenzioso, nel senso che né le aziende né i lavoratori sanno davvero se, quanto e anche quando le valutazioni abbiano influito sulla loro attività.

Dare voce all’algoritmo

Susanna Camusso, al recente Festival dell’Economia di Trento, è tornata sulla proposta fatta dalla CGIL lo scorso autunno: dare voce all’algoritmo, contrattualizzarlo come parte del rapporto di lavoro, ragionare su come ragiona. Questa prospettiva è molto interessante.

Il punto infatti non è eliminare il tema della reputazione, ma renderlo parte di un processo sistematico e virtuoso, con regole e procedure ben precise. Le aziende non possono scaricare il rischio reputazionale sul singolo lavoratore; se vogliono valutarlo sulla base della sua reputazione devono metterlo anche nelle condizioni di offrire un servizio di qualità e lavorare al massimo delle sue potenzialità. Questo significa anche farsi carico, come azienda, dei disservizi che possono insorgere dall’errore umano o comunque dagli impedimenti che possono presentarsi. Se una consegna arriva in ritardo, il cliente sarà insoddisfatto del servizio nel suo complesso, non certo del singolo fattorino. Nel caso delle piattaforme di delivery l’errore principale sta nel pensare che il sistema di turnazione basato sul punteggio del rider possa bastare, in definitiva, per aumentare la qualità del servizio passando l’ordine al fattorino che corre più veloce, fin quando anche lui non potrà più reggere quel ritmo – e così via. Questo migliora davvero il servizio finale offerto al cliente?

Se guardiamo le valutazioni dei clienti di una delle app di food delivery più usate, ci troviamo di fronte una sequela di giudizi negativi: “presa in giro”, “impossibile ordinare”, “servizio molto scadente”, “ormai ogni volta un dramma”, “una parola: IMBARAZZANTE”.

Il mondo delle consegne è solo un caso. Il discorso vale per tutti i settori. È assolutamente necessario riflettere, ragionare, ripensare il significato di “reputazione”. La reputazione nell’ambito delle risorse umane è solo un pezzo della catena che non può prescindere dagli altri, anzi è strettamente connesso a come l’azienda gestisce nel complesso il rischio reputazionale di tutte le altre aree: qualità di prodotti e servizi, pricing, customer care, comunicazione.

La reputation economy è già in atto da tempo, si tratta ora di regolamentarla.

 

Photo credits: www.sialcobas.it

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