L’Italia entra nell’era greenwashing

L’evoluzione negli ultimi otto anni della green communication in Italia va a braccetto con i prodromi, l’innesto, la deflagrazione e il superamento della grande crisi economica del 2008. “Il mondo (dopo la crisi) non sarà più come prima”. Quante autorevole fonti hanno, dal 2009 in poi, dato questa previsione. E così è stato. Fino al 2008, […]

L’evoluzione negli ultimi otto anni della green communication in Italia va a braccetto con i prodromi, l’innesto, la deflagrazione e il superamento della grande crisi economica del 2008.
“Il mondo (dopo la crisi) non sarà più come prima”. Quante autorevole fonti hanno, dal 2009 in poi, dato questa previsione. E così è stato.

Fino al 2008, coerentemente con una gestione a dir poco leggera dell’alta finanza, grazie alla crescita globale e ai miti dell’economia di mercato, alcune aziende sentivano l’esigenza di comunicare green, ma solo per sfruttare un sentore diffuso, per testare verso il pubblico un nuovo posizionamento, con l’obiettivo di vendere di più.
Pochissimi avevano un approccio coerente rispetto al tema dell’ecologia.

Valcucine, in Italia, nota azienda specializzata in arredamento da cucina del triveneto, era (ed è tutt’ora) sicuramente una di queste aziende “coerenti”.
Paradossalmente Valcucine e altre aziende (ad esempio, sempre nello stesso periodo, Patagonia), avevano da tempo deciso di non affidarsi ad agenzie di comunicazione esterne per sviluppare la comunicazione, ma di organizzarsi al loro interno, con una divisione creata ad hoc non per ragioni strategiche ma semplicemente perché le agenzie di comunicazione non erano culturalmente in grado di aiutarli nelle strategie di comunicazione.

Siamo nell’era degli incentivi statali per l’energia da fonti rinnovabili, degli incentivi per la rottamazione delle vecchie auto, dei motocicli e di molto altro. Siamo in piena era “greenwashing”.

Nella green communication non vige il processo classico utilizzato dalle agenzie creative dove il cliente fornisce il briefing, l’agenzia partorisce un’idea creativa e sviluppa i messaggi da veicolare attraverso i media.
Nella green communication il processo è: il cliente fornisce il briefing, che viene verificato in dettaglio dall’agenzia, solitamente in collaborazione con il cliente, per verificarne la coerenza. Quindi vengono calcolate le riduzioni delle emissioni o i vantaggi reali per l’ambiente. Solo dopo questo processo si lavora sull’idea creativa; solitamente si elaborano anche progetti di CSR e CRM; alla fine del processo avviene sempre la verifica (e comunicazione) dei risultati.

In quegli anni abbiamo anche assistito a dichiarazioni fatte da personaggi autorevoli del mondo della comunicazione italiana, per certi versi dichiarazioni assurde, come ad esempio sostenere che tutto sommato – siamo nel 2011 – sarebbe stato meglio per le aziende comunicare con messaggi di greenwashing piuttosto che non comunicare per niente green.
A conti fatti, pur non potendo accettare questa teoria, che quando ebbi modo di sentire la prima volta in occasione di un simposio mi sconvolse non poco, questa in realtà conteneva una certa lungimiranza: in mancanza di argomenti “veri” da poter comunicare, attingere dai luoghi comuni del greenswashing e comunicarli avrebbe avuto come risultato il fatto di sollecitare la sensibilità del pubblico verso un argomento che altrimenti sarebbe rimasto sopito ancora per molto.

Non dimentichiamo che a quel tempo la stragrande maggioranza delle aziende aveva drasticamente tagliato i budget della “sperimentazione comunicativa” in chiave green. Diciamocelo chiaro: all’industria costa ripensare i processi produttivi in chiave di sostenibilità, senza sapere se il mercato premierebbe la scelta. Ecco perché molte aziende alla fine ritengono sarebbe meglio delocalizzare alla ricerca di nuove economie. Questi dubbi non sono campati per aria, sono dubbi concreti per gli imprenditori. Non stiamo certo vivendo un’epoca dove il prezzo finale del prodotto non conti.

Per forza di cose spesso ci dobbiamo accontentare di una via di mezzo, che tuttavia è green, per definizione, a metà. Prendiamo l’esempio delle auto 100% elettriche e di tutti gli esempi di auto ibride.

Il motore ibrido è una buona via di mezzo, a parità di prestazioni si risparmia oltre il 20% di carburante da fonti fossili. Ma quanto farebbe meglio alle emissioni CO2 un parco auto 100% elettrico, o ancora meglio a idrogeno, è facilmente intuibile.
Tesla Motor è un esempio straordinario di progetto lungimirante, di qualità, di grande portata strategica: associare performance, autonomia, design, comfort – valori solitamente destinati a vetture di lusso – a una vettura (di lusso) 100 % elettrica.

Tuttavia Tesla Motor è pesantemente in perdita, e lo sarà probabilmente ancora per molti anni. Ma il progetto merita di essere tenuto in vita. Dopo il picco massimo negativo del mercato degli investimenti nella comunicazione tra il 2012 e il 2013, nel 2014 il consumatore era profondamente cambiato, certamente in meglio. Più attento, più parsimonioso, più green, più informato, più esigente, più selettivo.

Le aziende hanno percepito l’esigenza di essere più sinceramente sensibili ai temi della natura e della sostenibilità. Sono spariti come d’incanto tutte la “chiaviche” di investimenti in riforestazione a 12.000 km di distanza, tutto, o quasi, il greenwashing becero. Nella green communication, a questo punto gestibile anche dalle agenzie di comunicazione tradizionali, c’è stato tuttavia un proliferare in Italia di iniziative di CSR (Corporate Social Responsibility).

Purtroppo non si può sperare nient’altro, se vogliamo essere coerenti, visto che i processi produttivi in Italia sono ancora fermi al palo, cioè rigidamente ancorati a vecchi schemi energetici e progettuali. Non c’è una strategia nazionale, non c’è un vero sostegno politico al cambiamento, non ci sono progetti innovativi, se non speculativi. Il tema vero è la progettazione del prodotto e la sua industrializzazione in chiave “green”.

C’è solo un settore industriale per il quale si tollera la non sostenibilità, che però ha risvolti positivi in termini di riduzione delle emissioni: IT e telefonia mobile consumer. Non possiamo fare a meno di smartphone, tablet e note book, anche se siamo ambientalisti. Tutti sanno quanto pesante sia questa industria, avida di metalli rarissimi e difficili da estrarre, per l’energia che assorbe, per i ritmi di lavoro dei lavoratori che li producono.

Il vantaggio offerto dai device digitali è che la virtualizzazione delle attività consente di alleggerire il peso delle attività hard a vantaggio di quelle soft.
In Italia, grazie al posizionamento naturale del Paese del buon vivere e della dieta mediterranea, tutto il comparto degli alimenti naturali può rappresentare una buona opportunità per la green communication. Anche in questo caso è però necessario fare le cose sul serio.

Un famoso spumante della Franciacorta, Barone Pizzini, dichiara di essere bio, cioè in regime di agricoltura biologica; e la cantina ha avuto anche importanti riconoscimenti internazionali. Per prima cosa i terreni sono trattati con fertilizzanti naturali. Uno dei fertilizzanti naturali che vengono utilizzati sono le bucce d’arancia e limone. Qualche tempo fa un cliente fece notare che se gli agrumi utilizzati come fertilizzanti provengono da coltivazioni trattate chimicamente, tali trattamenti andrebbero ad invalidare la coltivazione cosiddetta bio del noto spumante. Il ragionamento non fa una piega.

Ciò non toglie il merito alla casa vinicola di aver puntato su un prodotto “green”, così come risulta evidente che il green non è ai giorni nostri un semplice posizionamento, non è solo marketing, ma un processo molto complesso e pieno di insidie.

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