L’Italiano professionale che ingabbia il lavoro

Comunicare a parole, in generale, è difficile. Spesso lo si tende a dare per scontato, dato che in fondo noi esseri umani comunichiamo sin dalla primissima infanzia, ma non esiste nessuno scevro da tremendi incidenti diplomatici dovuti a fraintendimenti, a poca chiarezza, a incomprensioni, avvenute proprio in questo ambito apparentemente così “naturale”, così connaturato all’uomo. […]

Comunicare a parole, in generale, è difficile. Spesso lo si tende a dare per scontato, dato che in fondo noi esseri umani comunichiamo sin dalla primissima infanzia, ma non esiste nessuno scevro da tremendi incidenti diplomatici dovuti a fraintendimenti, a poca chiarezza, a incomprensioni, avvenute proprio in questo ambito apparentemente così “naturale”, così connaturato all’uomo. Perché, dunque, comunicare è così complesso, e lo è ancora di più quando occorre far passare un messaggio da un’azienda o un settore professionale verso l’esterno?

 

Le lacune degli italiani nell’uso dell’italiano professionale

È noto che gli italiani mediamente hanno una criticità linguistica: crescono in una sorta di schizofrenia di registro, acquisendo una lingua aulica e vagamente ingessata a scuola (chiamiamola “la lingua dell’egli”) e portando avanti un linguaggio assai più pressappochista e “casual” nelle interazioni personali (la “lingua del bella raga”). Sono due estremi di un continuum di registri linguistici che spesso nel mezzo presenta una voragine, che si manifesta nell’incapacità di maneggiare con precisione e sicurezza gli altri registri che pur ci servono nella nostra vita, soprattutto quando approdiamo al mondo del lavoro. A quel punto l’italiano della scuola e l’italiano della strada non bastano più, e ci si ritrova a costruire, con un certo affanno, una competenza “terza”: quella dell’italiano “al lavoro”, o italiano professionale.

Ora, in alcuni soggetti, la costruzione di questo terzo polo linguistico avviene senza grossi traumi: si acquisisce il lessico del proprio ramo del sapere, della propria professione, e lo si accomoda nella cassetta degli attrezzi linguistici integrandolo al resto del proprio bagaglio linguistico. In molti altri casi, invece, l’integrazione non avviene in maniera così pacifica, e a quel punto possono accadere alcuni fenomeni che, invece di arricchire il proprio patrimonio comunicativo, contribuiscono a irrigidirlo ancora di più (laddove, va detto, la maggior ricchezza linguistica è costituita dalla capacità di muoversi tra vari registri nella maniera più ampia e fluida possibile). Dunque, quando il disagio comunicativo aumenta con l’arrivo del polo della professione, si ricorre quasi consequenzialmente all’ausilio di alcuni esoscheletri linguistici, di alcune “stampelle” alle quali sostenersi, per sentirsi più sicuri.

Normalmente si pensa che quello dell’insicurezza linguistica sia il problema delle persone poco acculturate, nel qual caso, in mancanza di competenze argomentative, il rifugio diventa il turpiloquio: si sa, chi si mette a offendere dopo poche battute di uno scambio lo fa quasi sempre per coprire una grande insicurezza. Non va invece dimenticato che anche le persone dalle competenze molto alte (ma magari molto specifiche e circoscritte) possono provare lo stesso disagio, che in quel caso va nella direzione opposta. È il disagio della persona altamente qualificata, mettiamo caso un medico, che non riesce a passare da “signora, può descrivermi la sua minzione notturna?” a un più semplice “signora, ma quante volte fa pipì durante la notte?”: è il disagio provato nell’uscire da un registro linguistico strettamente settoriale per farsi capire anche da chi di quel settore non fa parte. Magari appellandosi a una presunta necessità di precisione semantica: “Certe cose si possono dire solo in questo modo”.

Ecco, quest’ultima affermazione non è quasi mai vera, perché quasi qualsiasi cosa può venire espressa in maniera più semplice. Che semplificare non voglia dire banalizzare l’aveva dimostrato egregiamente Tullio De Mauro con la sua collana di “libri di base”, composta da 139 volumi usciti tra il 1979 e il 1989 per Editori Riuniti: testi di divulgazione scientifica per redigere i quali era stato chiesto agli autori di attenersi a criteri di alta leggibilità, partendo dal vocabolario di base definito proprio da De Mauro stesso; di quest’ultimo si può consultare una versione aggiornata sul sito di Internazionale.

 

Anglicismi ingiustificati e tecnicismi estremi: gli spauracchi della comunicazione

Se a bassi livelli, dunque, l’esoscheletro è il turpiloquio, agli alti livelli le stampelle sono spesso due: l’inglese, o meglio, l’inglesorum, che funziona esattamente come il latinorum del famoso Azzeccagarbugli descritto dal Manzoni nei Promessi Sposi (cioè un inglese usato non quando serve – nel qual caso è sacrosanto – ma semplicemente per “darsi un tono”), e il tecnicismo estremo, che ovviamente vira verso l’incomprensibile. Facciamo alcuni esempi: quando si parla di how to o di reason why o di forecast del quarter, ma anche di bail in e bail out delle banche, non si fa in realtà nulla di particolarmente diverso dallo scrivere “obliterare il titolo di viaggio” alla stazione o “si pregano di conferire le deiezioni canine nell’apposito contenitore” lungo una strada del centro cittadino (tutti esempi reali): in entrambi i casi si esclude, più o meno scientemente, una parte del proprio potenziale uditorio dalla comunicazione.

Chi lavora all’interno di un ente, un’azienda, un settore ad alta specializzazione, dovrebbe tenere conto del fatto che esiste, per qualsiasi contesto, una comunicazione endoriferita, rivolta cioè verso l’interno del suo ambiente, nella quale si possono dare per scontate una serie di nozioni ed esiste per così dire una comune enciclopedia di saperi, e una comunicazione esoriferita, nel corso della quale è invece necessario prestare estrema attenzione alla chiarezza e comprensibilità della comunicazione, senza dare quasi nulla del proprio ambito specialistico per scontato.

Se nella comunicazione endoriferita è pure giusto pretendere che i propri colleghi capiscano, facendo essi parte dello stesso milieu specialistico, in quella esoriferita l’attenzione va rivolta al potenziale interlocutore più debole, non a quello più forte, cognitivamente e culturalmente parlando. Il che vuol dire, in buona sostanza, semplificare la complessità, rendere trasparenti i significanti, glossare i tecnicismi, quando non sostituibili con corrispettivi più comuni, evitare i forestierismi di lusso e spiegare quelli necessari. In generale, chi deve comunicare dal “dentro” verso il “fuori” del contesto lavorativo o specialistico deve assumersi l’onere della trasparenza comunicativa e anche quello dell’eventuale fallimento della sua comunicazione, senza ricorrere a foglie di fico come “non sono stato capito”, che di fatto spostano la “colpa” del mancato passaggio di informazioni sul ricevente.

 

Comunicare, bene, la propria conoscenza

È difficile, tutto questo? Giova forse in questa sede ricordare le immortali massime conversazionali di Herbert Paul Grice, che recitano, parafrasandole:

  • Scrivi o parla quanto basta, senza eccedere né in sintesi né in abbondanza.
  • Scrivi o parla nel modo più chiaro possibile, rifuggendo le scelte oscure.
  • Scrivi o parla pensando per chi lo stai facendo, perché la comunicazione è relazionale.
  • Scrivi o parla cercando di essere sincero, cioè parla di ciò che conosci bene e in modo veritiero.

Quando il professionista non riesce a emanciparsi dal suo linguaggio, finisce per rinchiudersi da solo in una gabbia linguistica che diventa costrittiva e che ridurrà la comunicazione a un atto performativo (in sostanza, una recita, o per sfoggio di competenze, o per rivendicazione e difesa di una certa posizione professionale, o direttamente per insicurezza e paura), invece che l’atto generativo che dovrebbe essere.

Chiaramente, questa semplicità ha un costo cognitivo salato, perché implica saper padroneggiare perfettamente non solo la materia che si tratta, ma anche gli strumenti linguistici che si possiedono, avendo grande consapevolezza delle possibili variazioni di registro e una conseguente elasticità nel muoversi tra un registro e l’altro. Ma del resto, se si pensa solo a ciò che si deve dire e non a ciò che si può dare, si tradisce il famoso pensiero espresso da Antonio Gramsci nel 1916: “Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”. In altre parole, la conoscenza è nulla, senza la relazione.

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