Ma chi ha sbagliato, Pagliuca?

«Ma chi ha sbagliato, Pagliuca?». Gli appassionati di calcio e di Mai dire Gol non possono non ricordarlo. Accade durante Bari-Sampdoria finita 1-1, del campionato di Serie A  ’91- ’92. Una frase storica di Vujadin Boskov, leggendario allenatore della Sampdoria di un calcio di altri tempi, che dopo aver subito il gol del pareggio si […]

«Ma chi ha sbagliato, Pagliuca?».
Gli appassionati di calcio e di Mai dire Gol non possono non ricordarlo. Accade durante Bari-Sampdoria finita 1-1, del campionato di Serie A  ’91- ’92. Una frase storica di Vujadin Boskov, leggendario allenatore della Sampdoria di un calcio di altri tempi, che dopo aver subito il gol del pareggio si rivolse alla panchina chiedendo: «Ma chi ha sbagliato, Pagliuca?».

“Chi ha sbagliato?” è una domanda ricorrente nelle organizzazioni aziendali, anche se quasi mai esplicitamente pronunciata, che si insinua nell’organizzazione e ne pervade la cultura, condizionando pesantemente comportamenti conservativi e poco avversi al rischio.

Rischio = Errore = Punizione.

La paura di commettere degli errori è un elemento di freno all’innovazione nelle aziende, drena risorse ed energie preziose e crea un clima nel quale è meglio proteggersi anziché rischiare. Favorisce la politica e le relazioni personali ed inibisce lo spirito di squadra e di iniziativa. E così, lo sappiamo, molto spesso non è il colpevole che paga ma quasi sempre il più debole.

Restiamo nel calcio. Se Marco Van Basten avesse temuto di commettere un errore ed essere quindi successivamente punito e sostituito in Olanda vs Russia, nei campionati Europei del 1988, non avrebbe corso il rischio di fare ciò che ha fatto: avrebbe, probabilmente, semplicemente stoppato la palla o crossato e non avrebbe regalato al mondo uno dei gol più belli della storia del calcio e all’Olanda una vittoria storica nel campionato Europeo.

L’attitudine al rischio, dunque, risulta essere un elemento fondamentale nei processi di innovazione; correre rischi prevede coraggio e il coraggio si fonda su tre elementi: personalità, competenza e confidenza. Tutti elementi di cui un’organizzazione si deve prendere carico quotidianamente; Leader e Manager devono creare ambienti aperti ed inclusivi, dove i collaboratori possano esprimere la propria personalità, fornire supporto, strumenti, programmi di formazione e opportunità di contaminazione per lo sviluppo continuo delle competenze, generare confidenza attraverso modelli di trust e non di comando e controllo.

Ho trascorso 20 anni in un’azienda che ha fatto della continua innovazione la chiave della sua straordinaria crescita e dell’incredibile successo e il modello di innovazione era bassato su tre pilastri:

Build= sviluppo interno

Buy= acquisizioni

Partnering= alleanze di mercato.

Delle oltre 100 acquisizioni a cui ho assistito, diverse sono fallite, così come decine di nuovi prodotti sviluppati non hanno mai visto la luce e anche una parte di alleanze considerate strategiche hanno col tempo dimostrato di non esserlo.

Ma tutto questo era semplicemente considerato “fisiologico”, una componente stessa del processo di innovazione che contempla l’errore e il fallimento come parte stessa del processo di apprendimento e crescita di un’organizzazione.

Trovare in un singolo o in una funzione aziendale il responsabile di un fallimento o di un insuccesso crea molto spesso un effetto placebo che permette alle aziende di sentirsi immuni da ogni responsabilità: se il fallimento di un progetto è legato ad un singolo, rimuovi e/o sostituisci il singolo e avrai risolto il problema e così non sarai mai costretto a porti la vera domanda:  “Cosa è successo?”, “In cosa abbiamo sbagliato?”. “Who vs what”.

Ma l’errore del singolo esiste, così nel calcio come nelle aziende ed in questo caso entriamo nella sfera delle caratteristiche, dei talenti, delle competenze e dei comportamenti degli attori in gioco ma anche delle responsabilità del management e della leadership. Per questo diventa cruciale il ruolo di chi seleziona, motiva e  guida.

Questo è il momento giusto per porsi ripetutamente ed insistentemente la domanda “Chi ?”, come suggerisce Jim Collins nel suo libro Good to Great, che crea una interessante e suggestiva metafora del business come un autobus e del leader come l’autista. E suggerisce tre passaggi fondamentali:

1) avere le persone giuste sul bus attraverso una selezione rigorosa, meticolosa e approfondita e in caso di dubbi non fare salire la persona “a rischio” di non essere adatta;
2) avere le persone giuste nei posti giusti, che non significa avere il 100% delle persone al posto giusto ma significa avere il 100% dei posti chiave assegnati. Se pensi che qualcuno non sia seduto al posto giusto, dagli il tempo di provare che può fare bene cambiando di posto, prima di arrivare a soluzioni estreme;
3) far scendere le persone sbagliate dal bus. Quando sei certo di dover fare dei cambiamenti esegui senza esitazioni, il che non significa essere brutali. Tratta le persone con rispetto, dignità e gentilezza ma non esitare nella decisione.

Se ti sei posto la domanda “Who?” nel momento giusto e se hai investito tempo nel selezionare e creare una squadra di persone di valore e di cui ti puoi fidare, se hai corretto e cambiato quando necessario in modo risoluto, se hai creato un ambiente che permette di esprimere le diverse personalità e lo sviluppo delle competenze, allora l’errore o il fallimento devono essere non solo tollerati ma apprezzati e considerati parte irrinunciabile del viaggio.

La domanda “Chi ha sbagliato?” allora non ha più ragione di esistere.

Resta solo “Cosa non ha funzionato?”. The Who and The What…

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