I miti sulla Trasformazione Digitale proposti dal Massachusetts Institute of Technology? Discutibili

Per dirla alla Brian Solis, futurologo di Altimeter Group, con il termine “Trasformazione Digitale” si intende “un nuovo scenario competitivo di economia digitale dove tecnologia, modelli di business e processi sono ri-organizzati o combinati ex novo al fine di generare valore incrementale per i dipendenti e i clienti, in modo più efficiente”. Già da questa prima (e, […]

Per dirla alla Brian Solis, futurologo di Altimeter Group, con il termine “Trasformazione Digitale” si intende “un nuovo scenario competitivo di economia digitale dove tecnologia, modelli di business e processi sono ri-organizzati o combinati ex novo al fine di generare valore incrementale per i dipendenti e i clienti, in modo più efficiente”.

Già da questa prima (e, aggiungo io, parziale) definizione, puoi chiaramente capire la portata del tema. Un tema che però non ti suona nuovo, vero?

Trasformazione Digitale. In effetti, quante volte hai sentito queste due parole negli ultimi anni? Soprattutto se lavori in azienda, immagino molte. Moltissime. Tanto – forse – da averne smarrito il significato tra report, analisi, convegni, interventi.

Se infatti la Trasformazione Digitale è una questione rilevante per le agende dei manager di tutto il mondo, il rischio che diventi una semplice moda, un’etichetta retorica senza grande impatto sulla competitività organizzativa, è molto alto.

Trasformazione Digitale: i 5 miti del Massachusetts Institute of Technology

Un paio di mesi, fa, mentre preparavo i materiali per alcune giornate di formazione dedicate a una platea di profili executive non digitali, mi sono imbattuto in un articolo pubblicato sul magazine di management pubblicato dal Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston. Scritto dal prof. Stephen J. Andriole e intitolato Five Myths About Digital Transformation, il pezzo introduce cinque falsi miti (a detta dell’autore) sulla Trasformazione Digitale.

Bingo!

Mi è sembrata un’occasione brillante: usare proprio i cinque miti come canovaccio per chiarire l’argomento per contrasto. Così ho organizzato un momento di confronto con Alessandro Giaume.

Alessandro lavora come Innovation Director presso Ars et Inventio (CoE del Gruppo Bip – Business Integration Partners), è Direttore della collana Industria 4.0 e autore del libro Data Scientist. Tra Competitività e Innovazione per FrancoAngeli. Chi meglio di lui può aiutare me e te a fare chiarezza su che cosa significa davvero la Trasformazione Digitale?

Ciao Alessandro, benvenuto sulla Rubrica Passaporto Digitale di Senza Filtro. Mi auto-elogio: interessante l’idea di rileggere insieme i falsi miti sulla Trasformazione Digitale proposti nientepopòdimenoché dal MIT :). Partiamo dai primi due:

  • ogni azienda deve trasformarsi digitalmente
  • la Trasformazione Digitale fa leva su tecnologie di rottura

Ciao Alberto, e buongiorno al pubblico di Senza Filtro. Sulle prime affermazioni del prof. Andriole sono abbastanza d’accordo. A mio avviso, la Trasformazione Digitale viene affrontata dalle organizzazioni con due principali approcci, connessi ad altrettanti hashtag.

  1. [#Potere] L’azienda si trova oggi in una posizione di comfort. Da questa posizione competitiva si aprono due scenari:
    1. ha già un business profittevole e la Trasformazione Digitale incide nell’efficientamento dei processi, migliorando i numeri di performance. Si tratta di un’evoluzione, non viene modificato il modo di fare le cose, ma le stesse vengono “fatte meglio”;
    2. si tratta di un business che funziona bene e che garantisce margini alti, il che porta l’interesse verso l’esplorazione di modelli di business diversi. Si fanno cose nuove, per esempio capendo la possibilità di fare disruption di un nuovo settore – che si ottiene quando traiettorie di tecnologie esponenziali incontrano traiettorie di modelli di business lineari. Per esempio, viene scoperta la possibilità di entrare in un mercato consolidato stravolgendo i suoi costi caratteristici, grazie al fatto che sono abilitate tecnologie esponenziali. Come si può fare? In ufficio consigliamo: “disegna il tuo peggior nemico”.
  2. [#Dovere] L’azienda è nelle condizioni mandatorie di doverlo fare. Se è stata proattiva e ha perseguito il punto 1.2, non si troverà in questa condizione di necessità.

Un terzo mito sulla Trasformazione Digitale sollevato dal Prof. Andriole è una citazione che spesso si ascolta nei corridoi degli uffici delle organizzazioni:

  • “dobbiamo fare disruption della nostra industry prima che lo faccia qualcun altro”

All’interno del bellissimo libro di Clayton M. Christensen The Innovator’s Dilemma: When New Technologies Cause Great Firms to Fail, si parla di un tema importante: lo sviluppo delle nuove tecnologie esponenziali cambia le traiettorie, e le tecnologie consolidate con ambiti di applicazione molto diversi possono sovrapporsi alle stesse tecnologie esponenziali. IBM per secoli ha dettato il ritmo dell’innovazione nel campo tecnologico, consentendo a tutti di rientrare negli investimenti, di offrire il giusto grado di protezione ai clienti, etc. Se un’azienda è capace di osservare le dinamiche esponenziali, essa stessa può cambiare la propria curva di prodotto, ma le caratteristiche di profittabilità sono simili a quelle che aveva il prodotto precedente. Uber non sta più cercando di costruire una forza base, ma sta sviluppando una propria flotta di taxi senza autista: qualcosa di ben diverso! Avere sviluppato la piattaforma ha fatto comprendere a Uber le dinamiche di mercato, trasformandola da disruptor ad azienda. Il Gruppo Hilton ha 1.250.000 camere di proprietà: dovrebbe orientarsi verso un profondo cambiamento se vuole eliminare la competizione di AirBnB, modificando radicalmente l’esperienza vissuta dai propri clienti rispetto all’offerta del concorrente.

Trasformazione Digitale e soldi vanno spesso di pari passo, almeno nell’immaginario collettivo. A tal proposito, è interessante il quarto mito:

  • le aziende più profittevoli sono quelle che più probabilmente lanciano progetti di Trasformazione Digitale

Il mito sembra suggerire che le aziende che hanno più soldi da investire avviino con più probabilità processi e progetti di Trasformazione Digitale. Ma se le cose stanno andando bene, è difficile che vengano iniziati tali progetti di trasformazione. Molto più spesso, si inizia a pensare di fare Trasformazione Digitale quando si smette di avere agio e posizioni di leadership. Ma un’azienda che opera in condizioni favorevoli, tranquille – “buone” – può certamente fare esplorazione di nuovi modelli di business, sviluppando così uno startup mindset. Tale mindset di lean startup corporation, che aiuta a mettere alla prova velocemente prototipi e modelli, va sviluppato proprio nel DNA delle aziende profittevoli. L’ottica non deve essere tanto di cambiare il modello di business, ma di prendere le risorse organizzative e usarle per verificare e sperimentare nuovi modelli di business di interesse. Se un’azienda ha un modello di business profittevole, un percorso virtuoso potrebbe prevedere l’apertura di un venture capital (strumento di esplorazione) e la configurazione di un processo di open innovation (sistema che permette di “calare a terra” l’output della fase esplorativa).

Passiamo all’ultimo mito citato dal MIT. Finalmente, le persone!

  • i top manager sono affamati di Trasformazione Digitale

Sulla carta, si tratta di una bugia. La responsabilità del top manager non è tanto quella di essere affamato, quanto quella di abilitare la sua organizzazione alla sperimentazione digitale. Questo comporta due elementi:

  1. l’organizzazione deve avere una readiness. Deve essere dotata di skill e competenze per agevolare il suo coinvolgimento in iniziative di tecnologia. Si tratta di un tema tecnico (digital ready);
  2. l’organizzazione deve avere la willingness to do. Si tratta di un tema culturale (ready to change).

La responsabilità del top management è di avere un’azienda che sia sempre pronta a innovare e sperimentare, a muoversi verso iniziative di Trasformazione Digitale in funzione degli scenari descritti al primo punto. Introduco parole come BlackOps e shake management.

Attraverso survey estensive, i livelli di readiness e willingness all’innovazione digitale devono essere poi monitorati e misurati. Rispetto alla situazione esistente, l’ideale sarebbe delineare due tipologie di gap:

  • gap di orientamento all’innovazione, tipica del mercato nel quale si trova, derivabile da benchmark, al di sotto della quale l’organizzazione non può posizionarsi. Di seguito occorre poi comprendere come fare a colmare il gap;
  • gap che deriva dall’incapacità di “calare a terra” le competenze perché non esistono le condizioni di contorno per farlo. Qui risiede il concetto di active inertia: non solo non capisco che cosa succede dall’esterno, ma continuo ad andare nella mia direzione. Il sistema si auto-regola replicando se stesso. Il gap va colmato modificando il modo di approcciare la novità e il cambiamento.

Se esiste un certo profilo di competenze e skill, occorre comprendere quali bisogna curare e quali no. La soluzione? Lavorare solo su gap e caratteristiche premiate e spinte, i punti migliori e più distintivi. Si tratta di una strategia orientata all’ottimizzazione della capacità di un’azienda di essere tale, generando competitività organizzativa.

Verso tutti i dipendenti, l’executive deve comunicare e diffondere l’orgoglio di fare parte dell’organizzazione, e l’azienda deve mettere a disposizione tempo e strumenti (progetti sperimentali, stanza dell’innovazione, corsi ad hoc…). Da parte loro, anche i dipendenti hanno però responsabilità importanti: se vengono messi a disposizione tempo e risorse e loro non ne approfittano, il treno passa oltre. Le persone devono condividere il progetto aziendale, sentirsi parte integrante e comprendere che la mancanza del loro contributo può anche impattare sugli altri; un concetto di impresa che torna adessere fortemente basato sulle persone. Dal digitale alla persona: paradossale, vero?

 

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