Molestie sulle donne: la clinica dei “mostri”

“Io sogno che un giorno strutture del genere non esistano più. Lo dico contro il mio interesse, ma sarebbe un salto culturale”. L’harakiri lavorativo è quello di Andrea Spada, coordinatore del Centro Trattamenti Uomini Maltrattanti (Ctm) di Forlì. E’ colui che da alcuni anni ha a che fare con i “carnefici”: uomini denunciati dalle donne per […]

“Io sogno che un giorno strutture del genere non esistano più. Lo dico contro il mio interesse, ma sarebbe un salto culturale”. L’harakiri lavorativo è quello di Andrea Spada, coordinatore del Centro Trattamenti Uomini Maltrattanti (Ctm) di Forlì. E’ colui che da alcuni anni ha a che fare con i “carnefici”: uomini denunciati dalle donne per molestie. E’ il referente del team di psicologi del centro: “Dicono che noi difendiamo i mostri – spiega con la voce gioviale dei romagnoli – ma in realtà li aiutiamo a imbroccare una strada nuova”.

Oltre il divieto d’accesso della violenza c’è innanzitutto la parola che descrive le emozioni: “Nei vari casi trattati abbiamo riscontrato una costante: l’incapacità maschile di gestire le emozioni e il conflitto. Quest’ultimo è visto come limite e non come possibilità di crescita, quale dovrebbe essere”. E’ “l’analfabetismo emotivo”, che accomuna le molestie private a quelle lavorative: la sindrome perenne da foglio bianco quando, tra gli uomini, occorre raccontarsi.

Una cassetta degli attrezzi vuota di parole (vere) che ogni uomo comincia a dondolare dall’adolescenza. Il risultato è, nei troppi casi limite, la democrazia della violenza: “Non fa distinzioni di lavoro, titolo di studio, lingua, etnia”, chiude Spada. Molesti sono gli italiani in giacca blu e mocassini, così come gli immigrati in ciabatte, rotte.

Alla base c’è uno stesso meccanismo di potere e di controllo che assume forme diverse mantenendo lo stesso respiro: l’alito del molestatore che distilla vessazioni e conseguenti ritorsioni.

Il Porco al lavoro

Sul luogo di lavoro diventano trappola, nelle parole di Olga Ricci, pseudonimo di una giornalista, precaria, autrice del libro denuncia: “Toglimi le mani di dosso” (Chiarelettere), animatrice del blog Il Porco al Lavoro: “Se il mio capo fa un apprezzamento indesiderato e inopportuno – racconta – in genere è difficile mandarlo a quel paese come farei con un ragazzo al bar, perché lui può attuare delle ritorsioni e magari non rinnovarmi il contratto. Il capo che ci prova è difficile da neutralizzare se mancano gli strumenti contrattuali”.

I dati, “datati”, fotografano il fenomeno tra scrivanie e cartellini: secondo l’Istat – indagine 2008-2009 – sono 1 milione e 308 mila le donne italiane che hanno subìto nell’arco della vita avances o pressioni nell’ambiente di lavoro. Le più colpite hanno tra i 25 e i 44 anni, sono diplomate e laureate, vivono nelle grandi città del Centro Nord, lavorano nei settori dei trasporti, delle comunicazioni e della pubblica amministrazione. In sostanza è come se tutti i milanesi (tutti tutti) fossero stati molestati: una moltitudine silente non per “analfabetismo emotivo” ma per carenza di strumenti di tutela: il 99,3 % delle donne molestate sul lavoro non denuncia, ancora l’Istat.

Olga Ricci: “Noi donne più giovani siamo cresciute dando per scontato che la parità fosse un fatto acquisito. La precarietà, invece, ha vanificato molti diritti ottenuti con le lotte del passato. Se ci si ritrova in balìa di un superiore che molesta sessualmente, in assenza di un contratto, è difficile pensare a una causa di lavoro”.

Lei stessa, Olga, finisce – nel libro verità – da giornalista con un contratto “pronto da firmare” a preda della trattativa “tanto al chilo”: no disponibilità alle attenzioni di un direttore divora aria “mani tozze e mento a triplo strato”, no contratto. Così tutto sfuma e il giornale chiude, infine. E lei che racconta non ci mette la faccia: “Non capisco come avrei potuto mettere nome e cognome su una storia che non ha giustizia e mai l’avrebbe avuta perché non ho raccolto prove sufficienti, come mi ha detto più di un avvocato. La mia è la denuncia di un sistema. Io non ho le possibilità economiche e non ho le spalle abbastanza coperte per diventare un’eroina”.

Ma anche quando una donnaci sta” non serve: “Recentemente mi hanno colpito le storie di due donne. Il loro dramma – spiega la giornalista – deriva dall’esserci state con il capo. Entrambe hanno avuto benefici immediati che poi, però, sono sfumati e loro sono state ricattate a oltranza. Una era fidanzata e stava per sposarsi, l’altra temeva di perdere la reputazione di fronte ai colleghi. Il primo sì che hanno detto le ha costrette a una catena di sì”.

La testimonianza onesta del “mostro”

Come se ne esce, dunque? Per ora è un fiorire di “Protocolli anti molestie” nel settore privato e di Comitati unici di garanzia (Cug) nel pubblico. Ma si tratta, spesso, di firme di scartoffie, senza sostanza. Diversi gli strumenti nei Paesi anglosassoni: “È prassi che nelle società americane non siano ammesse formalmente le relazioni interpersonali private che possono portare ad abusi di potere”, scrive Olga Ricci. Insomma una netta, chirurgica, distinzione privato-lavoro. Ma anche qui le regole tentano di colmare un vuoto culturale.

Chiude Olga: “Senza uno stipendio, la libertà di una donna viene condizionata dalla benevolenza del partner (uomo o donna che sia) oppure dalla ricchezza familiare. Ci saranno anche altre vie, ho sentito molte versioni in questi anni, mi è stato anche detto che lavorare non è importante, ma queste altre modalità fatico a immaginarle, nel concreto”.

Nel lungo periodo esiste solo quello che Andrea Spada chiama “lo scardinamento dei meccanismi culturali che portano a minimizzare vittima e molestatore, abbassando il livello di pericolosità”. Così il “mostro” (uno degli uomini in cura al Ctm), denunciato dopo 16 anni di violenze dalla compagna – cresciuta in una famiglia violenta – si sente autorizzato a dire a Senza Filtro: “Mi sono controllato. Non l’ho mai sbattuta per terra, solo qualche ceffone e qualche calcio nel culo. Me li ha tirati fuori”. Salvo poi aggiungere, sotto l’occhio del terapeuta: “Ho imparato a parlare, ho capito la lezione. Ma le leggi non tutelano nemmeno le donne: ho ricevuto un ordine di allontanamento ridicolo. Avrei potuto fare qualsiasi cosa, se avessi voluto”.

Così il Ctm di Forlì è destinato a lunga vita: “Da noi vengono spintaneamente”, sorride Andrea Spada col suo neologismo. A dire che la presa di coscienza ha bisogno di spinte. Un parto lungo “secoli nei secoli”.

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