Niente prepagate, per favore

“Ma con i like che hai su Facebook ci paghi la spesa?” è una delle domande più ricorrenti che, solitamente, viene fatta a chi dedica del tempo ai propri canali social e alla cura della community. Abbiamo scomodato una parola che è diventata una categoria di marketing, “influencer”, spesso interpretata male – o quantomeno in […]

“Ma con i like che hai su Facebook ci paghi la spesa?” è una delle domande più ricorrenti che, solitamente, viene fatta a chi dedica del tempo ai propri canali social e alla cura della community.

Abbiamo scomodato una parola che è diventata una categoria di marketing, “influencer”, spesso interpretata male – o quantomeno in maniera superficiale. Come se si trattasse soltanto di saccheggiare il bottino dei fan costruito con fatica e impegno, giorno dopo giorno, per veicolare dei messaggi pubblicitari anziché coinvolgere dei “creatori di contenuto” nella produzione di storie grazie alla conoscenza del mercato che hanno maturato sul campo. Ben vengano in questo caso gli influencer, intesi come portatori dell’endorsement all’inglese, un innesco all’acquisto che nasce da una trasparente volontà di aiutare, di condividere qualcosa di davvero utile per il pubblico.

Che lo si voglia chiamare “marketing dell’influenza” o “digital pr”, rimane il senso del discorso: le aziende cercano persone che siano in grado di influenzare altre persone. Allineandosi agli influencer i marchi ricevono una forma di validazione peer to peer e riescono là dove il marketing tradizionale spesso fallisce. Una vera e propria alleanza editoriale guidata non dal numero di follower, ma dalla pertinenza e dalla rilevanza dei contenuti. Ecco perché la parola “influencer”, così come è concepita, è fuorviante: non c’è “influenza” sui consumatori odierni senza un messaggio coerente, senza verità e senza rispetto – richiesto anche al brand che deve attivarli. Un’idea di comunicazione il più possibile fedele al vero e che abbia riguardo dell’intelligenza degli interlocutori.

Già, ma con i like ci paghi la spesa?

Quella dell’influencer non è una professione, è una conquista. Nonostante si tenda sempre a sminuirne il ruolo è una medaglia al valore, ottenuta in un determinato ambito grazie a contenuti apprezzati sui social. Non era già una delle tesi del fin troppo celebre Cluetrain Manifesto quella che sosteneva: “Le aziende devono scendere dalla loro torre d’avorio e parlare con le persone con le quali vogliono entrare in contatto”?

Ecco, le aziende sono scese da quella torre. Si sono mischiate alla gente. Hanno compreso che i tempi sono cambiati e che è meglio usare la giusta esca per prendere il pesce che si desidera piuttosto che pescare con le bombe a mano rischiando di fare un buco nell’acqua. Un dato tutto italiano deve far riflettere: il 30% degli intervistati da Augure, software di influencer marketing, identifica gli influencer con i VIP (nel resto d’Europa siamo al 19%). Un semplice numero che però evidenzia la visione molto limitata di alcuni marketer che preferiscono la fama alla valutazione dell’audience, della credibilità, della competenza.

Va da sé che il legame tra il brand e chi promuove un determinato messaggio debba essere sempre più coerente. A meno che a promuoverlo non sia una come Chiara Ferragni che però, appunto, non va più annoverata alla voce influencer, ma in quella dei VIP a tutti gli effetti. Anzi, per essere ancora più espliciti, Chiara Ferragni è un’azienda che fattura circa 30 milioni di euro all’anno. Un personal branding che (forse) paga ancora la spesa, ma non la maggior parte delle cose che le vediamo indossare su Instagram.

Scandalo? Orrore? Anatema?

Per sollecitare la massima trasparenza e chiarezza sull’eventuale contenuto pubblicitario dei post pubblicati, così come previsto dal Codice del consumo, l’Autorità Antitrust ha ricordato che la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale, affinché l’intento commerciale di una comunicazione sia percepibile dal consumatore. Che è diverso dallo stereotipo del consumatore televisivo, quello che secondo Renzo Arbore “comanda fino a quando ha stretto in mano il suo telecomando”.

È un consumatore più smaliziato, più abituato ad aggirare i messaggi pubblicitari; se vogliamo, più sincero. Nel libro People are media di Aldo Agostinelli e Silvio Mezza (Mondadori, 2017) c’è una riflessione molto interessante sul focus group, una pratica assai diffusa nelle aziende: “L’Italia è un Paese nel quale è particolarmente difficile svolgere ricerche di mercato, perché gli italiani sono intrinsecamente falsi, di natura e di indole. In tutto. Se chiediamo a un americano quando e quanto assume cibi grassi durante il giorno, lui non si fa nessun problema a dire la verità: Mangio un doppio cheeseburger a pranzo, poi a cena bevo una Coca-Cola large. Se chiediamo a un italiano se mangia patatine fritte, lui risponderà: Ma quando mai, al massimo un paio di volte al mese. E magari ha ancora le dita unte e sporche di sale e la dispensa piena di snack”. 

È verissimo. Oggi possiamo dirlo senza timore di smentita: i focus group servono davvero a poco. Viceversa sappiamo che la gente online dice la verità. Vuole dire la propria ed essere ascoltata, si sente rappresentata da una categoria di persone che ha più facilità di creazione del contenuto. Evidente l’altra faccia della medaglia. Se dice la verità chiede indietro altrettanto: di che cosa, esattamente, alcuni pseudo-influencer stanno riempiendo i social?

L’etica, prima di tutto

L’estate scorsa l’Antitrust ha individuato criteri generali di comportamento e ha chiesto di rendere chiaramente riconoscibile la finalità promozionale attraverso l’inserimento di avvertenze come #pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #ads e #adv.

Ma non saranno un paio di hashtag a regolamentare il settore. È innanzitutto un problema di cultura: non è influencer colui che attraverso un qualsiasi canale di comunicazione (blog e pagina Facebook su tutti) si propone ai brand per una recensione positiva in cambio di qualche prodotto omaggio. Questi sono semmai “tester”, persone che si improvvisano esperte di qualcosa. Non sono influencer tutti coloro che promuovono il libro di turno dell’amico senza nemmeno averlo letto, o l’ultimo meraviglioso corso di formazione senza averne condiviso il valore, il metodo. Non sono influencer tutti quelli che accettano di promuovere per soldi un contenuto che non ha nulla a che vedere con la loro audience, con il loro tono di voce, con i loro valori.

Il rischio è quello di riempire la nostra timeline Facebook di fuffa, di contenuti vuoti e privi di un reale valore aggiunto. Una bolla destinata a sgonfiarsi presto, assieme ai dati di vendita di certi libri, regalati soltanto agli amici. Il tutto perché alla base c’è un problema alla radice di certe scelte; non ci si propone più per le competenze, ma per il pubblico di fatto commettendo un doppio errore: 1) svendere la propria fan base, 2) smettere di lavorare sulla qualità della propria proposta di valore.

Si potrebbe scrivere un trattato sull’etica del marketing, prima ancora di quella degli influencer. Perché questi ultimi non inventano nulla, e se per anni si è diffusa l’idea delle 4P (prodotto, prezzo, promozione, punto vendita) come fondamento del tutto, viene difficile pensare che la E di “etica” potesse trovare spazio in un territorio poco regolamentato come quello del marketing degli influencer. Il principio di trasparenza nasce come esigenza dalle comunità di riferimento, più che da una semplice norma da imporre alle celebrità o ai testimonial di turno. Questo perché le dinamiche di influencing non riguardano solo utenti chiaramente individuabili come “celebri”, ma una miriade di soggetti differenziati, che dalle loro posizioni dominanti su pubblici di nicchia vengono coinvolti nei più diversi progetti di buzz.

Il principio di celebrità con i social media si è generalizzato e moltiplicato sino a rendere evidente che ogni utente può essere in qualche modo influente per un altro a partire dai gradi di fiducia che li legano. La dimensione etica può svilupparsi e diffondersi solo attraverso gli utenti, solo attraverso comportamenti che salvaguardano la nostra reputazione connessa. Serve creatività e volontà di dar vita a progetti davvero capaci di coinvolgere, perché a fare la differenza è la capacità dei contenuti di rispondere alle esigenze dell’utente. Etica vuol dire trasparenza, coerenza e – non ultimo – rispetto della concorrenza.

Influencer con la Postepay

È forse il tema più sottovalutato di tutti, quello che fa più arrabbiare chi ogni anno è costretto a versare ingenti contributi allo Stato. Esistono tantissimi influencer che, coscienti dei costi della partita IVA, fatturano con ritenuta d’acconto, o peggio ancora si fanno “ricaricare” (sic) la prepagata, come fanno i genitori con i loro figli. Se non si tratta di una regalia è pur sempre un bel dono, e uno smacco per tutti quelli che invece agiscono nel pieno rispetto delle regole.

Il problema quindi non sono i doni che i brand fanno agli influencer. Andrebbero piuttosto considerati una conquista di chi ha lavorato bene sulle properties, sul pubblico, sulla fan base. Sta all’azienda, semmai, non sminuire il valore del proprio brand/servizio. Sta all’agenzia, infine, lì dove l’azienda non abbia le competenze giuste in ambito digital pr, aiutare il brand nella scelta delle persone giuste. Quelle che possono valorizzare il prodotto. Senza dimenticarci che un professionista non creerà mai un contenuto in cambio di un regalo.

Un regalo serve a rafforzare un legame. Come nella vita, un regalo non è una moneta di scambio.

Sì, ma alla fine “con i like che hai su Facebook ci paghi la spesa?”

La spesa magari no. Ma conosco un sacco di persone che grazie ai like (meritati, non comprati) sui social sono riusciti a rafforzare legami con diversi brand. E oggi ne traggono giovamento su diversi settori: dal food al beauty, passando per il tempo libero e per i viaggi. Solo gli hater e gli invidiosi non vedono che dietro queste “regalie” ci sono anni di lavoro, e che gli stessi influencer sono i primi a denunciare i comportamenti scorretti di chi usa scorciatoie. Solo i superficiali possono pensare che il modello sia replicabile per chiunque. Coerenza, credibilità e rispetto, grazie. Del brand, dei consumatori e delle regole. Niente prepagate, per favore.

 

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