I nomadi all’era dei bit

Fino a pochi anni fa ci stupivamo quando in una caffetteria o nel cortile di una università incrociavamo qualcuno davanti ad un caffè con accanto un telefono cellulare, un iPod e un portatile intento ad utilizzare una connessione ad internet wireless per controllare la posta elettronica o fare una conference call di lavoro. Era il […]

Fino a pochi anni fa ci stupivamo quando in una caffetteria o nel cortile di una università incrociavamo qualcuno davanti ad un caffè con accanto un telefono cellulare, un iPod e un portatile intento ad utilizzare una connessione ad internet wireless per controllare la posta elettronica o fare una conference call di lavoro.
Era il periodo in cui si leggevano titoli di giornali con sempre più parole inglesi al loro interno. Quella che andava per la maggiore era “always-on”.
Ci raccontava di un’era in cui saremmo stati connessi in modo permanente, scambiandoci testi, foto o video per tutta la giornata con amici e famiglia, lavorando allo stesso tempo.
Negli ultimi dieci anni i caffè con Wi-Fi si sono moltiplicati e quella connessione è diventata un servizio da offrire quasi obbligatoriamente un po’ ovunque. Allo stesso modo si sono moltiplicati quelli che sono stati definiti “tecno-beduini”. I beduini dei sobborghi cittadini, come quelli dei deserti arabi, sono creature intrinsecamente tribali e sociali. Ceature che hanno capito fin dall’inizio che una buona oasi ha a che fare più con la presenza di un Wi-Fi che con il ristoro.

Il nomadismo urbano e digitale

Quello del nomadismo urbano però non è un tema nuovo. È stato infatti introdotto da Marshall McLuhan negli anni ’60 e ripreso più volte da vari sociologi o tecnologi negli anni successivi. Nel 1990 Tsugio Makimoto e David Manners hanno scritto congiuntamente il primo libro sul nomadismo digitale anticipando problemi e delineando visioni di un futuro prossimo a cui avremmo dovuto far fronte. Da quel momento in poi si è iniziato ad affrontare l’argomento delineando possibili futuri strettamente connessi all’evoluzione tecnologica.

Ma tutte quelle prime rappresentazioni e previsioni sul nomadismo avevano probabilmente mancato il punto. Gli stili di vita di oggi sono diversi da quelli descritti in quei libri e non possiamo certo biasimare gli autori per questo, dato che le tecnologie che abilitavano al “nomadismo moderno” non esistevano neanche un decennio fa. A fine anni novanta avevamo i gadget, telefoni cellulari, computer portatili o personal digital assistant (PDA), ma non c’era l’elemento abilitante: la connettività.
I Nomadi urbani hanno iniziato ad apparire solo negli ultimi anni. Come i loro predecessori del deserto, sono definiti non da quello che portano con se’, ma da quello che si lasciano alle spalle, sapendo che l’ambiente in cui si trovano fornirà a loro ciò di cui hanno bisogno. Così come i beduini non portano con loro l’acqua perché sanno dove sono le oasi, i nomadi moderni non portano documenti e file perché quelli sono accessibili ovunque ci sia un punto di connessione, indipendentemente dal dispositivo utilizzato. Persino il laptop sta diventando un oggetto superfluo. Oggi basta uno smartphone o un tablet e, se pur si presentasse la necessità di lavorare più “seriamente”, basterebbe sedersi sedersi di fronte ad un qualunque computer in tutto il modo utilizzando un browser per accedere ai propri file tramite cloud.

Un altro grande equivoco fatto nei decenni precedenti era quello di confondere il nomadismo con la migrazione o il viaggio.
Poiché i costi (fissi) delle telecomunicazioni sono crollati, è diventato interessante contemplare il concetto di ”morte della distanza“.
Dal momento che i primi smartphone sono stati adottati principalmente da dirigenti d’azienda, si è ipotizzato che il nomadismo fosse qualcosa che riguardava in particolare i viaggi aziendali. E forse è proprio per questo che compagnie aeree come JetBlue, American Airlines e Continental Airlines hanno introdotto per prime il Wi-Fi in volo.

Gli esseri umani hanno sempre migrato e viaggiato, senza necessariamente vivere una vita nomade. Il nuovo nomadismo però è diverso. Un adolescente di Oslo ha le stesso rapporto con il nuovo nomadismo di uno suo coetaneo di Tokio o di Città del Capo. Anche se un nomade urbano si limita a spostarsi in uno spazio geografico relativamente ristretto, ha una nuova e sorprendente relazione con il tempo e con le altre persone.
Ciò che è diventato davvero vitale non è il movimento, ma la presenza costante di connettività, influenzando enormemente il nostro concetto di “spazio”.

Per questo una nuova generazione di futurologi, sociologi e antropologi stiano cercando di capire come le comunicazioni mobili stanno cambiando le interazioni tra le persone, il nuovo nomadismo tende a portare le persone che sono vicine ancora più vicine e questo ha implicazioni su tutta la società.
Architetti, costruttori e urbanisti stanno cambiando il loro approccio alla costruzione di edifici e città in modo da ospitare le nuove abitudini dei nomadi che vi ci abitano.
Gli attivisti sfruttano questa nuova ubiquità per migliorare il mondo preoccupandosi di quali possano essere gli effetti degli stessi strumenti adottati dai loro antagonisti.
I linguisti analizzano come questi nuovi cambiamenti influenzano il linguaggio stesso, e quindi il pensiero.
Dobbiamo quindi prepararci ad ulteriori nuove abitudini, ad un nuovo rapporto con il tempo, con lo spazio e con il concetto di presenza. Tutto questo viene definito dalla tecnologia che ne circoscrive i limiti e le potenzialità.

Nel loro complesso tutti questi cambiamenti ci confermano, finalmente, la fusione storica di due tecnologie che hanno già dimostrato di essere rivoluzionarie. Il telefono cellulare ha cambiato il mondo, diventando onnipresente tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri. E Internet, che ha toccato principalmente i paesi ricchi, ma sta arrivando (tramite i dispositivi mobili) anche in quelli più poveri. Questo nuovo mondo ha già cambiato il modo in cui la gente fa acquisti, si relaziona con la propria banca, ascolta musica, si informa o socializza.
E tutto questo non è stato vissuto come uno shock dalle generazioni più vecchie che invece si sono adattate progressivamente senza accorgersene.

La cosa più straordinaria è, e sarà ancora di più, l’assenza di competenze tecniche. Le tecnologie diventano più semplici e usabili e grazie anche alle tecnologie indossabili, molto più personali. Non abbiamo bisogno di capire come funziona qualcosa. È il risultato che conta. Sono le connessioni umane che oggi prendono il sopravvento rispetto alla tecnologia che le abilita.
E forse aveva ragione Sigmund Freud, “Arbeiten und lieben”: gli esseri umani in buona salute, per rimanere tali, hanno solo bisogno di amare e lavorare. Il modo con cui questo avviene è quindi trasparente e quello che diventa sempre più interessante non ha tanto radici tecnologiche, ma sociali e antropologiche.

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