Orchestrali a spasso e bacchette spezzate in azienda.

Adesso che la Primavera a Roma è definitivamente sbocciata, nel mezzo delle Piazze o agli angoli delle strade la loro musica dilaga prepotentemente attraverso il brusio dei turisti, nel vociare dei commercianti del Centro, nei bisbigli dei camerieri che “buttano dentro”, all’esterno delle trattorie fra il Pantheon e Campo dei Fiori. Li senti bene, perché quella musica […]

Adesso che la Primavera a Roma è definitivamente sbocciata, nel mezzo delle Piazze o agli angoli delle strade la loro musica dilaga prepotentemente attraverso il brusio dei turisti, nel vociare dei commercianti del Centro, nei bisbigli dei camerieri che “buttano dentro”, all’esterno delle trattorie fra il Pantheon e Campo dei Fiori.

Li senti bene, perché quella musica non proviene da chitarre sguaiate o da fiati in sospeso, ma hanno un suono superiore che ne indica la provenienza come un grosso dito sulla testa di quelle figure: sono gli orchestrali, passati dalla buca dell’orchestra ai sampietrini, da Wagner ai calessi per turisti, dai lustrini e dai lampadari brilloccorosi allo schiaffo della luce del giorno.

Non c’è tutela alla passione, agli anni di studio investiti, ai sacrifici offerti in nome di un obbiettivo. Professionisti in coda per un concorso, poi un bando, poi un’audizione per strappare il posto da cui il suono si propaga, testimonianza di culture millenarie di tutti i Paesi del mondo. Come i maestri di scuola, certi preti e come certi dottori. Più che un mestiere, una missione.

E sembra incredibile come un Paese come il nostro non sia in grado di proteggere chi tramanda il nostro bene più prezioso: quel milione di pezzi che rappresentano un unico grande tesoro che va da Pompei ai Teatri dell’Opera, dai Musei chiusi per la maggior parte dell’anno o depredati dalle Fondazioni. Ne abbiamo viste di tutti i colori: dal Ponte Vecchio regalato alla Ferrari per poche centinaia di Euro (fra l’altro pare non siano mai stati incassati), al Ministro Giovanardi che di fronte al disastro di Pompei dichiarò che con la cultura non si mangia.

Ma se trattiamo così i professionisti dell’arte e della cultura, immaginate cosa stia succedendo nelle aziende tradizionali, dove gli orchestrali sono coloro che hanno dedicato anni alla crescita della loro azienda sacrificando nottate e vacanze, quelli che hanno perso le coincidenze all’aeroporto e quelli che hanno perso gli affetti inseguendo la carriera, quelli che hanno salvato un cliente per il rotto della cuffia  e quelli che più volte hanno tirato giù la saracinesca quando tutti erano già andati a casa. Come se fosse loro.

Dove sono finiti gli orchestrali dopo che le loro organizzazioni hanno divorato capitali, patrimoni, risorse? Che ne è stato di tutto quel lavoro, di tutta quella passione, di studio e pianificazione, di prove e di riunioni, di successi e fallimenti, di applausi e di richieste di “bis”?

Qualche mese fa ho conosciuto alcuni lavoratori che avevano rilevato l’azienda in cui avevano lavorato per anni. Mi è rimasta impressa una loro frase: “l’azienda stava fallendo e noi sapevamo che le scelte dell’imprenditore erano sbagliate, ma non potevamo fare nulla per fermarlo”. La soluzione l’hanno trovata da soli, riprendendosi ciò che avevano costruito e curato per tanti anni e che chi doveva averne cura, stava abbandonando. Girata la pagina, lo spartito cambia il tempo.

Cambiano anche le regole e il mondo sembra andare alla rovescia. Finalmente a marzo sono passati i decreti delegati del JobsAct. Ricordiamolo: la nuova legge sul lavoro che il Primo Ministro Renzi detto il Rottamatore ha voluto su richiesta delle imprese, le quali continuano a ripetere che in Italia non si può assumere perché non si può licenziare. Ad aprile il Ministro del Lavoro Poletti ha dichiarato settantanovemila contratti a tempo indeterminato nei primi due mesi dell’anno. L’Osservatorio del Lavoro parla di meno di tredicimila. Sebbene il risultato non poteva essere l’effetto del JobsAct non essendo stato ancora reso operativo dai Decreti, i Direttori d’Orchestra dalla Von Fornero in poi non sembra abbiano ancora imparato ad aver dimestichezza con i numeri.

Incontro tutti i giorni candidati con un capitale professionale preziosissimo. Talenti capaci di trasmettere libri di conoscenza; la schiena ancora dritta, la voglia di dimostrare quanto valgono e il bisogno di lavorare ancora per 15 anni. Ma in azienda preferiamo pensare ai talenti come a qualcosa da plasmare a nostra immagine e somiglianza. “Preferiamo qualcuno che possa crescere con noi” mi dice la bambolina dell’Ufficio Personale, 30 anni scarsi, che ripete come un pappagallo il ritornello imparato a memoria, impartito da qualcuno con meno fantasia di lei nell’immaginarsi il futuro.

Lei, un’orchestra tutta sua non l’avrà mai: non sa leggere lo spartito e l’improvvisazione è una tecnica molto precisa.

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