Ossessionati dal controllo dei dati. E l’intuizione?

Immaginate di dover decidere quali capi di abbigliamento la gente dovrà comprare in un certo negozio. Non semplice, vero? Immaginate di averlo sempre fatto a modo vostro, magari da decenni: ci avete sempre messo intuito, passione e perseveranza. Avete costruito rapporti solidi con distributori, clienti e fornitori e ottenuto spesso anche da loro risposte ai […]

Immaginate di dover decidere quali capi di abbigliamento la gente dovrà comprare in un certo negozio. Non semplice, vero? Immaginate di averlo sempre fatto a modo vostro, magari da decenni: ci avete sempre messo intuito, passione e perseveranza. Avete costruito rapporti solidi con distributori, clienti e fornitori e ottenuto spesso anche da loro risposte ai vostri dubbi: quale fantasia andrà per la maggiore quest’anno? Meglio le righe o i quadri? Cosa si venderà meglio?

Immaginate poi di aver finalmente capito su quale prodotto puntare ma non potrete portarlo con le vostre gambe nei negozi. Servono allora agenti e commerciali per formare una rete di vendita che dovrà convincere i negozianti riguardo alla validità dei vostri articoli. Questa è la prima vera prova per capire se le vostre scelte sono state corrette o meno. La seconda prova sarà sul cliente finale, che deciderà se acquistare quanto mostrato in vetrina o sullo scaffale. L’ultimo livello sarà costituito dal suo giudizio post-vendita: l’esperienza è stata soddisfacente in tutto e per tutto? Il rapporto qualità prezzo è stato coerente? In sostanza, c’è da chiedersi se tornerà di nuovo a comprare la vostra marca in quel negozio.

Giudizi, discussioni, commenti

A pensarci bene, ognuna di queste fasi genera una serie di domande e di risposte, distribuite lungo una vera e propria rete di blocchi che va dal produttore al consumatore, per poi risalire al contrario. Il produttore sarà portato ad aggiustare il tiro nella realizzazione dei propri capi sulla base del giudizio del consumatore, di conseguenza il cliente finale deciderà alla fine se le eventuali variazioni avranno incontrato il suo gusto. In mezzo a tutto questo stanno i tanto bistrattati agenti, che ovviamente influenzano i blocchi più vicini in base al loro giudizio per forza interessato.

In questo modo di lavorare che avrete bene immaginato c’è in realtà buona parte del “pronto moda” italiano, quello che si pone sotto le griffe e veste la maggior parte di noi. I produttori vivono sempre questo eterno conflitto fra intuizione e ricerca dell’informazione, perché l’ossessione alla fine è sempre quella: non vendere, sbagliare la collezione e trovarsi a fine anno con un magazzino pieno di rimanenze e il conto in rosso in banca.

Ma il nodo è: l’insieme di diversi punti di vista o analisi dei dati reali?

Come ho letto recentemente su una rivista di business, un’azienda senza dati è in realtà un’azienda che ha solo delle opinioni. Aggiungo: per questo potrebbe essere molto influenzabile da chi (se ascoltato dai vertici) sappia mostrare più sicurezza nel ribadire la propria visione delle cose.

Viviamo in un’epoca estremamente florida dal punto di vista dei dati che possono essere a disposizione di chi prende delle decisioni. Le informazioni non sono solo generate dalle transazioni di un e-commerce o dalla compilazione di un form di un sito internet: sono negli oggetti intelligenti, nei beacon presenti nei negozi o che ci osservano dalla vetrina, nei bot che utilizziamo come strumenti di intelligenza artificiale. I blocchi in questo modo diventano potenzialmente infiniti e, con essi, i dati da analizzare.

Qui in gioco non c’è più solo l’intuito di un imprenditore che ha sempre saputo fare bene il proprio lavoro. Non più il solito sconsolato “questo modello non si vende” dell’agente plurimandatario che, quando non mette a confronto le percentuali delle commissioni delle aziende prima di mostrare questa o quella merce al negoziante, certamente ha una visone circoscritta alla sua zona di competenza. Non c’è più il giudizio post-vendita dato quasi unicamente dall’incontro al bar della piazza centrale, dove il cliente davanti a un caffè solitamente dice all’amico negoziante quanto è bella o brutta la nuova marca che ha deciso di vendere.

Oggi tutte queste fasi possono essere tracciate dalle aziende tramite app, e-commerce B2B per agenti e distributori, strategie di lead generation, mentre il cliente finale può acquistare direttamente attraverso l’e-commerce B2C e affidare il suo giudizio insindacabile sul prodotto ai social. L’analisi del sentiment di questi ultimi sarà sempre più importante per i decision maker: il giudizio finale del consumatore non sarà più limitato, ma segmentato a partire da una base molto più ampia, in cui c’entra anche il livello di soddisfazione dato dal rapporto col customer care. Non parliamo poi di tutto quello che immagini, selfie e storie possono portare ai brand sempre in termini di dati. Solo Whatsapp per ora genera una serie di informazioni volatili e difficilmente catalogabili: ma se Federico Marchetti di Yoox ha affermato in una recente intervista su Repubblica che stanno studiando il modo di automatizzare anche queste, date le molte vendite che la piattaforma genera tramite la popolare app di messaggistica, c’è da giurare che a breve tali modalità diventeranno disponibili per sviluppatori e analisti.

Per essere aiutati a prendere buone decisioni, veri scienziati del dato (non a caso queste figure professionali vengono definite data scientist) che a loro volta dovranno coordinare le informazioni provenienti da touchpoint distribuiti e pronti a moltiplicarsi: canali di vendite online, negozi fisici, social network, app di messaggistica, bot, membri della filiera commerciale come agenti e distributori.

Offline e online sembrano finalmente uniti nel concreto e non più contrapposti solo in teoria.

Come tutti gli ambiti in cui si scatena una nuova e interessante corsa all’oro, le regole e i protocolli sembrano essere validi fino a un certo punto, proprio perché non universalmente conosciuti.

L’intuizione tornerà di moda?

Ricordo esattamente la prima volta che un mio cliente produttore di moda ha scoperto il potere dell’analisi del dato, non proprio un’era geologica fa. Lo stupore che mostrò nel vedere che gli stessi capi che non avevano avuto successo in negozio erano stati in realtà venduti molto bene su internet fu un misto fra atteggiamento infantile e perfida eccitazione da voyeur. Da lì è iniziata una sorta di escalation: ogni settimana mi chiedeva di arricchire la sua area di back office con nuovi report sui più venduti, divisi per fornitore, area geografica, taglia, colore e chi più ne ha più ne metta. Mostrava i report alla sua rete vendita confutando o avvalorando le loro opinioni, mettendo così in crisi il modo con cui avevano sempre lavorato. Poi gli mostrai che all’interno della sua area B2B avremmo davvero potuto controllare ogni passo del suo agente, distributore o negoziante: su quali pagine si soffermava di più o di meno, quali capi aveva fermi nel suo carrello, il tempo di navigazione, l’IP da cui si collegava e così via. Una sorta di marketing automation fatta in casa che permetteva tuttavia un controllo quasi ossessivo di ogni passo.

La colpa è stata mia, in un certo senso: in quel momento non ho saputo mettere paletti o forse non mi è interessato farlo. Che ne sa chi vende moda di profilazione, cookie e privacy online? E poi, è davvero tenuto ad essere informato su tutti questi aspetti?

Col tempo sarà sempre più determinante che lo sia e sono certo che la prossima generazione di imprenditori avrà certamente una maggior cultura di base su questi argomenti rispetto a quella attuale, che in molti casi si è trovata ad accompagnare – se non ad accettare controvoglia – la rivoluzione di internet. Mi piace tuttavia pensare che il ruolo dei data scientist possa essere fatto di grandi competenze tecniche ma anche di una certa etica di fondo, quasi esistesse una sorta di deontologia nel riportare solo i dati davvero di reale interesse per il business.

Come ho sentito poco tempo fa ad un convegno, un’analisi del dato coerente deve avere la finalità ultima di unire scienza e creatività in azienda, nient’altro. L’intuito di cui parlavo all’inizio non può mai venire meno né essere sopperito dalla sola presenza dei dati, che devono piuttosto stimolarlo attraverso i fatti e non le opinioni. In fondo, se non ci fosse la meravigliosa dote dell’istinto imprenditoriale, saremmo in grado tutti di decidere, semplicemente leggendo un report, se andranno di più i quadri o le righe nelle prossime collezioni autunno inverno o primavera estate.

 

(Photo credits: unsplash.com/G. Crescoli)

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