Padri e figli in azienda: chi comanda?

Se padri e figli si trovano nella stessa azienda, chi comanda? Questa è una bella domanda. Devo dire che nel repertorio di aziende che ho incontrato in questi anni di attività libero professionale, di casi ne ho visti davvero parecchi. I rapporti tra generazioni che condividono il lavoro non si possono dire sempre distesi, ma […]

Se padri e figli si trovano nella stessa azienda, chi comanda? Questa è una bella domanda. Devo dire che nel repertorio di aziende che ho incontrato in questi anni di attività libero professionale, di casi ne ho visti davvero parecchi. I rapporti tra generazioni che condividono il lavoro non si possono dire sempre distesi, ma non è la regola. Sebbene una risposta univoca rischia di assumere una connotazione generalista, sono ben consapevole che calarci nel concreto di ogni singola situazione prevederebbe la stesura di un libro dedicato ad “aneddoti generazionali” e non di un articolo, quindi procedo attraverso le tanto amate categorie. Le categorie aiutano ad identificare l’idealtipo di genitori e figli che ho trovato nelle varie imprese e a comprendere un fenomeno che è ben più complesso di come lo descriverò.

Innanzitutto non dobbiamo pensare alla sola fascia dirigente. Sebbene in numero decisamente inferiore, potrei citare esempi di padri e figli che lavorano nella stessa impresa come dipendenti. Una categoria questa che non prenderò in considerazione perché, in genere, il figlio permane ben poco tempo nello stesso posto di lavoro del padre a causa degli attriti che si intrecciano con quelli familiari. Ben diverso è il caso del dipendente figlio che entra in azienda prendendo il posto del padre che va in pensione; in alcuni casi, se sei “figlio di” sembra che tu goda di una sorta di vantaggio cromosomico: se il padre era un buon dipendente lo sarà di certo anche il figlio. Queste considerazioni sono molto comuni nel Nord Est, territorio in cui lavoro, e ci sono esempi di famiglie intere le cui generazioni lavorano e hanno lavorato nella stessa impresa a due passi da casa. Una sorta di feudo ereditario che macroscopicamente si vede anche nella categoria degli imprenditori mentori dei propri figli.

Qui osserviamo tre comportamenti macroscopici. Il passaggio generazionale, si sa, non è mai facile, soprattutto per la categoria dei Generali che riconosci immediatamente dal tono della voce. Sono padri che comandano su tutto e su tutti, accentratori, decisionisti, tronfi del proprio successo, presunto o effettivo; che trattano chiunque, figli compresi, come deficienti inetti a prendere qualunque tipo di decisione o come inutili appendici. Il passaggio generazionale solitamente avviene in questo modo: i figli vengono inseriti in azienda con l’incarico di obbedire agli ordini nell’attesa che diventino un clone del genitore. A ottant’anni, consapevoli della propria immortalità, non prendono minimamente in considerazione la possibilità di ritirarsi. Casi patologici, a mio avviso, dove l’uomo si è identificato con l’impresa e sa bene che fuori da essa soffrirebbe di una forte crisi di identità. Ne conobbi uno così, morì felice nel suo ufficio alla tenera età di 96 anni. Nei mesi che seguirono il passaggio generazionale fu un completo disastro. Fortunatamente per i dipendenti i figli decisero di vendere ad un colosso internazionale.

Vi è poi la categoria dei Coccoloni, padri fin troppo amorevoli che vedono i loro figli come i futuri eredi al trono e nel frattempo li tengono rigorosamente lontani dalla loro impresa. Sporcarsi le mani per i principini non è assolutamente decoroso e quindi, nel momento in cui a sessant’anni giunge la consapevolezza che il passaggio “s’ha da fare”, li fanno uscire da palazzo e li portano a lavorare con sé, a quarant’anni. Per i Coccoloni è ovvio che le capacità manageriali si acquisiscono per linea di sangue e quindi la posizione di partenza non potrà essere diversa da quella di direttore, responsabile, manager a cui corrisponde un lauto stipendio inversamente proporzionale ai risultati raggiunti. Le conseguenze non sono difficili da immaginare. Mi ricordo di un caso così, il figlio si presentava alle 10 in azienda e il giovedì faceva mezza giornata perché doveva prepararsi per le gare di rally automobilistici a cui partecipava con passione ben diversa da quella che mostrava per gli affare di famiglia. Ah, sia chiaro: i fondi per la scuderia personale venivano attinti dall’impresa trattata come un bancomat.

Voglio poi descrivere l’ultima categoria, quella dei padri Genitori. Questa categoria è quella che preferisco. Invitano la progenie a seguire le proprie inclinazioni e, solo se queste coincidono con la vita in azienda, inizia il passaggio generazionale che parte dalla gavetta. L’imprenditore Genitore non ordina ma insegna, testa le abilità del figlio mostrandogli dove ha sbagliato e spiegandogli per quale motivo non ha paura di ascoltare e di delegare. Controlla, senza essere un controllore. Decide ma senza imporre. Guida ma senza obbligare. Agisce solo dopo aver analizzato i numeri, sempre fedele alla propria etica e ai propri princìpi e per questo viene considerato da tutti un esempio da seguire. I figli crescono cercando di assomigliargli con la libertà di esprimere le proprie idee che il padre vede come positiva evoluzione del business. E questi atteggiamenti li manifesta in ogni situazione e con tutti, figli o dipendenti che siano. Ne ho conosciuti molti di imprenditori Genitori, uno in particolare, grande capitano d’azienda che si era fatto da solo, aveva ben accolto il figlio facendolo fare la gavetta più dura, disponendo che i suoi manager lo trattassero come un comune impiegato. Il figlio ha fatto tesoro di tutte le lezioni, paterne e non, senza mai far pesare la parentela. Ora è un capacissimo e stimatissimo AD. Ecco che allora la considerazione finale arriva spontaneamente: per un buon passaggio generazionale conta l’educazione. Dei padri, ovviamente.

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