Patire la luce per raccontarla

Quando l’autore di un romanzo decide di intitolare Tutta la bellezza deve morire, con un’affermazione esaurisce tutte le argomentazioni possibili sulla dialettica della “napolitudine”, un’energia che consacra e vampirizza contemporaneamente, ma che non riesce mai abbastanza a liberarsi da etichette culturali e pregiudizi storici, in una sorta di eterno ritorno che fa svanire l’idea di futuro. Sarà quella […]

Quando l’autore di un romanzo decide di intitolare Tutta la bellezza deve morire, con un’affermazione esaurisce tutte le argomentazioni possibili sulla dialettica della “napolitudine”, un’energia che consacra e vampirizza contemporaneamente, ma che non riesce mai abbastanza a liberarsi da etichette culturali e pregiudizi storici, in una sorta di eterno ritorno che fa svanire l’idea di futuro. Sarà quella tensione a rappresentarla senza eccessivi romanticismi attraverso un’immagine o un dialogo, questa lucidità è diventa il filtro stesso del suo punto di vista sulla definizione del piano reale, quasi per superarlo e, finalmente, uscirne. Luigi è napoletano – s’è capito – è anche scrittore, sceneggiatore, regista e, soprattutto, sperimentatore. Ha diretto molti video musicali, format e spot pubblicitari, dedicandosi più volte al tema della mafia campana; tra i documentari firmati da lui, infatti,  c’è Scampia Trip, vincitore del Valva Film Festival 2011 e, di recente, per Rai Storia, la serie Le origini di Gomorra.  Ha lavorato in tv, come autore e come dialoghista di fiction e da qualche tempo porta avanti Psicogram un progetto di “social narrativa”, un dialogo tra due personaggi nato tra le pagine di Facebook e qualche tweet. Oltre al suo occhio, è soprattutto la mente di Luigi, naturalmente, che ci interessa in questo contesto.

Come hai deciso di iniziare la carriera da regista?
Uno dei primi ricordi della mia vita è di me a 7 anni che guardo un film e mi domando: “ma è tutto vero? Che vuol dire che non è vero ma solo ricostruito?”. Da allora posso dire che non ho mai smesso di essere sedotto da questa ambiguità, che è tipica delle immagini.

Quanto è stato difficile dare forma a questa ambiguità?
Non so se questo sia la costruzione di una carriera, ma è sicuramente la parte più emozionante del mio lavoro, sciogliere una serie di dubbi in immagini. Ed è sicuramente un’esperienza difficile, perché significa sognare e lavorare, mettere assieme professionalità e languore.

Qual è il legame con Napoli, con la tua regione?
Ho un legame molto violento e molto corporale con questa città. So che questo è press’a poco ciò che potrebbero dire quasi tutti gli scrittori, musicisti, registi, attori o pittori provenienti da Napoli. Perché è innegabilmente una città assoluta, pervasiva, struggente e vampiresca. È una città che per darti il meglio di sè, ha bisogno che tu le dia tutto di te. È uno scambio senza mediazioni, è un rapporto del proprio corpo con tutto il corpo della città. Ma Napoli è stata anche la porta che mi ha introdotto a quella che considera la mia vera natura. Io sono un mediterraneo puro, mi sento figlio della Grecia e dell’Andalusia, amo tanto l’Averno quanto Patmos, la Sicilia Normanna e Cartagine. La mia regione in tal senso non è la Campania, ma ha confini più ampi.

Che cosa vuol dire essere mediterranei?
Vuol dire innanzitutto patire la luce. Cioè soffrirla per troppo bisogno di guardarla, e farsene parte fino a goderla. Vuol dire un rapporto sensuale, filtrato tutto coi sensi, per nulla cerebrale e intellettualistico, col mondo. Vuol dire spalancare l’attenzione verso una dimensione complessa, stratificata, e mobile. Complessa per le troppe contraddizioni tra la luce e il buio – e quanta retorica questa città chiama a sé, visto? Siamo già alle endiadi -.  Stratificata perché qui tutto è storia e natura. Cammini per questa città e sei assalito e inghiottito da ogni possibile suggestione. Sei in una città spagnola, greca, romana, francese, araba. Sei su un territorio vulcanico che ti ribolle sotto i piedi. C’è il mare piatto, ma sotto di esso c’è il magma furioso dei vulcani e terra porosa a perdita d’occhio. Cammini su millenni e su storie, cammini tra voci e musiche.

Ti chiedi mai come puoi reggere il passo, lì?
Quando sei esausto ti riposi contro una roccia. È di tufo, ed è completamente spugnata nel sole, e così la luce accaldata ti entra sotto pelle. Da lontano c’è il mare, è di un azzurro ieratico. Alle tue spalle un budello stretto e scuro in cui si alternano troppi odori e troppe voci. Tutta questo è bellezza. Tutto questo è la passione della vita che esplode. Ma tutto questo, per essere vissuto fino in fondo, richiede un tributo enorme, un sacrificio di energia e volontà E forse per questo è così difficile “fare” a Napoli, perché le energie migliori che ciascuno ha in serbo, se ne vanno in questo corpo a corpo con la città. da questo punto di vista credo senza dubbio che il mio lavoro sarebbe stato più formato e più redditizzio altrove. Io non ho nessuna remora ad allontanarmi se c’è un progetto interessante da coltivare. Quello che la città doveva darmi e dirmi, ormai me lo porto in cuore. Ci si lamenta troppo di tutti i grandi artisti che devono lasciare Napoli per andare avanti, ma vivere qui, su questa graticola emotiva, richiede uno sforzo di equilibrio davvero troppo complicato e oneroso. Anche perché da troppi decenni la bellezza, l’immaginazione e la fantasia qui vengono vilipesi. Sono diventati gli alibi dei tanti che non fanno nulla ma si limitano a autocelebrarsi. Per troppi che vivono qui a Napoli, essa, la città è diventata la lastra fotografica che proietta il proprio passato anzichè l’oggetto su cui incidere il presente.

E perché hai scelto di dedicarti al tema della mafia nonostante in questi anni sia molto inflazionato?
Perché quando mi hanno commissionato questo lavoro – quattro documentari su quattro boss della camorra – ho pensato che fosse l’occasione per concentrami non tanto sugli aspetti socio-politico-economici del fenomeno, ma per gettare uno sguardo più ravvicinato sulle persone. Sui quattro uomini che erano diventati i 4 boss incontrastati del Male. Alla fine di ogni azione umana, tanto la più nobile quanto la più spregevole, quello che resta sullo sfondo è l’uomo che l’ha commessa. E entrare per qualche istante nella testa di quegli uomini è stata un’esperienza assolutamente vertiginosa.

Qual è lo strumento di lavoro che utilizzi di più?
L’immaginazione.

Come si svolge una tua giornata tipo quando sei in fase di produzione?
La parte più complicata del lavoro è trovare un equilibrio tra l’immaginazione – che è ermetica e solitaria – e il lavoro di equipe. Io lavoro da un po’ di tempo con 5/6 persone fisse, e nel migliore dei casi si tratta di convincerli a entrare nel tuo sogno, nella tua idea. È una cosa sfiancante ma anche molto gratificante perché il cinema, le immagini, sono necessariamente frutto di tante esperienze e tante abilità condivise. Diceva oscar Wilde, che la vita è l’arte di fare incontri. Nel lavoro, questa verità è assolutamente lampante. Ma d’altra parte Sartre diceva che l’inferno sono gli altri. E anche questa verità è assolutamente lampante. A parte questo aspetto, dò molta importanza alla fase di pre produzione. Sono uno di quelli che gira con miriadi di appunti e che vorrebbe avere quanti più aspetti sotto controllo.

A proposito di appunti, quale posto occupano la scrittura, i tuoi romanzi, in tutto ciò?
Un posto fondamentale. La scrittura mi da’ tutto quello che le immagini non mi danno. E le immagini mi danno tutto quello che la scrittura non mi da’. Ma non c’è relazione tra i due linguaggi. Una cosa è il primo lavoro e una cosa il secondo. Tendo a non confonderli mai.

 

 

 

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