Prendete sul serio i professionisti del Terzo Settore

La telefonata è iniziata da 5 minuti. “Simone registro la telefonata mentre guido così non prendo appunti”. Ma devo comunque accostare in una piazzola di sosta, perché le gallerie rischiano di far saltare la conversazione mille volte mentre Simone Sgueo, Hr Manager di Save the Children fa esplodere qualche numero: Save the Children Italia è […]

La telefonata è iniziata da 5 minuti. “Simone registro la telefonata mentre guido così non prendo appunti”. Ma devo comunque accostare in una piazzola di sosta, perché le gallerie rischiano di far saltare la conversazione mille volte mentre Simone Sgueo, Hr Manager di Save the Children fa esplodere qualche numero:

Save the Children Italia è una realtà ad oggi da 250 persone di staff con un ufficio centrale su Roma e due uffici distaccati su Milano e Napoli, oltre una serie di progetti disposti su tutte le regioni. Altre informazioni possono essere reperite trasparentemente su un bilancio sociale che viene pubblicato tutti gli anni. Save the Children è un’organizzazione registrata sia come Onlus che come ONG agganciata ad una Federazione Internazionale – Save the Children International – che ha sede a Londra e opera in circa 150 Paesi. Si potrebbe definire una multinazionale del profit sia in termini numerici che come organizzazione e struttura organigrammatica tipica delle imprese profit.

Prima di approdare a Save the Children, Simone ha una esperienza in Philip Morris, multinazionale del tabacco. Una scelta fuori dalle righe che mi permette di chiedere che differenze ha riscontrato in questi due modelli di impresa così distanti.

Quando si raggiungono numeri come questi, le differenze si assottigliano molto. Un paio di aspetti però mi hanno molto colpito operando nel Terzo Settore sono legati al piano valoriale dello staff: in questo tipo di organizzazioni, rispetto alle imprese tradizionali, non c’è da lavorare sugli aspetti motivazionali che generalmente nelle aziende profit vengono sempre monitorati e alimentati. Inoltre ho avuto modo di constatare una maggiore attenzione ad ascoltare lo staff anche nel caso delle decisioni più rilevanti. Nel riscrivere la strategia dei prossimi 5 anni, tutti i dipendenti  hanno collaborato, divisi in gruppi trasversali di aree molto diverse a seconda di 6 tematiche principali e interfacciati con altri gruppi internazionali. Una vera e propria strategia globale che normalmente nelle aziende tradizionali viene demandata solo ai piani alti.

Diventa dunque necessario approfondire che tipo di caratteristiche debbano avere i dipendenti di Save The Children; il sospetto che non basti essere buoni inizia a diventare sempre più una certezza.

Selezionare persone con un background profit molto forte è il nostro punto di forza; crediamo fortemente che l’esperienza, la professionalità e determinate skills tipiche delle imprese tradizionali siano  fondamentali per la nostra crescita. L’assetto valoriale personale e la propensione verso i temi del Terzo Settore è importante e viene indagato in fase di colloquio e attraverso specifiche prove che noi facciamo all’accesso; può fare la differenza in fase di selezione nella scelta di un candidato rispetto ad un altro ma non è un fattore che noi inseriamo come obbligatorio o decisivo in una job description. La provenienza dal Terzo Settore è spesso una facilitazione per il candidato riguardo ai trattamenti retributivi. Chi viene dal Terzo Settore sa che i nostri stipendi sono all’incirca il 20-30% più bassi del settore profit, questo senza considerare una serie di benefit tangibili / intangibili che noi non abbiamo se escludiamo quelli puramente strumentali. Cerchiamo quindi di riequilibrare con interventi di welfare e un’attenzione alla persona, ma non è che possiamo agire con stock option o benefit particolari. Questo non significa che siano stipendi bassissimi, soprattutto se si parla di profili manageriali o di figure importanti.

Quindi, come al solito, ad essere buoni ci si perde…

In realtà questa è una scelta etica dell’organizzazione; chi decide di lavorare per una organizzazione no profit deve anche condividere il presupposto che l’azienda quanti più soldi risparmia più ne può investire nel progetto e quindi ne devi avere un beneficio etico e personale. Inoltre noi aderiamo al Contratto Collettivo del Commercio, tipico delle grosse aziende e delle multinazionali e neanche troppo vicino al nostro settore ma l’unico che possa tutelarci in maniera corretta. Nel momento in cui tu inserisci figure dirigenziali con mansioni strategiche (il WWF ha inserito un DG che veniva dal profit, Unicef aveva inserito prima dell’attuale DG una persona che veniva da Poste) queste quando arrivano aderiscono ai valori del no-profit ma quando escono ricercano i benefici di cui godevano prima.

Fra tante Organizzazioni Governative come si fa ad emergere e a sopravvivere grazie alle sole donazioni?

Una grossa discussione che esiste nel nostro settore riguarda gli investimenti destinati alla visibilità di cui, da organizzazione a organizzazione, ognuno ha il suo personale punto di vista. Alcune aziende sono più barricadere, altre invece sono più disponibili agli investimenti pubblicitari. E’ vero che investi dei soldi ma è vero anche che ricevi risultati molto importanti. Quando io sono arrivato nel 2010 c’era un incoming di circa 25 milioni di euro, oggi sono 70 con un peso dello staff sul budget che in rapporto alla crescita non è incrementato. Questo è stato dovuto soprattutto agli investimenti fatti in visibilità che ci ha permesso di farci conoscere meglio e quindi di raccogliere di più e spendere di più nel progetto. Si può rimanere profondamente convinti dei propri valori nei confronti dei media da utilizzare o meno, però affidandoti unicamente al volontariato e al buon cuore dei donatori rischi di non raggiungere i risultati che ti permettano poi di investire in un progetto. Save the Children da questo punto di vista ha sposato una cultura anglosassone tipica del Terzo Settore dove non viene visto come un settore misterioso e per questo pubblichiamo un bilancio sociale trasparente perché crediamo che gli investimenti tornino indietro.

Ci sono figure che necessitano di una preparazione e una formazione specifica nel vostro ambito?

Ritengo che il mestiere del fundraiser, la persona esperta nella raccolta fondi, sia una professione molto complessa e molto delicata perché va a toccare anche contesti di raccolta fondi molto particolari come esempio il legacy – i lasciti testamentari. Stiamo cercando di sfatare il mito che nel non profit si venga a lavorare per volontariato. Noi vogliamo professionisti che siano retribuiti il giusto per la loro attività e che da professionisti abbiano dei diritti ma anche dei doveri. Non crediamo nei volontari che hanno le mansioni di un professionista.

I dialogatori sono figure professionali vere e proprie. Retribuite quasi completamente a successo, sono una specie di agente di vendita che in questo caso presenta un servizio professionale; da noi vuol dire avere un’area gestita da persone a vari livelli fino al dialogatore che è il nostro primo contatto con l’esterno. E’ una figura importantissima per tutte le organizzazioni italiane, internazionali, nonché per le NU. La differenza fra un volontario e un dialogatore al banchetto è evidente: il volontario è una persona che ti vende una maglietta, tu la paghi e finisce lì. Il dialogatore non ha incarico di prendere soldi in contanti, ma di prendere la tua favorevole approvazione verso la missione, ti spiega uno o più servizi e cerca di farti firmare una sorta di adesione a un progetto di donazione costante che viene poi passato a un customer care che ti riconnetterà successivamente per completare l’iter della donazione.

Mi piace Simone perché non si nasconde dietro a un dito e non usa mezzi termini quando spiega che anche un bene così intangibile ed etico ha bisogno di un business plan ben definito con i suoi attori.

Per quasi tutte le organizzazioni – prosegue – il dialogatore è il primo step di relazione verso l’esterno. Cambia poi il modo in cui tu gestisci questa persona. Save the Children queste figure le ha appaltate quasi interamente con agenzie che fanno prevalentemente questo tipo di lavoro; un servizio esternalizzato a terzi sebbene le persone siano seguite e formate da noi. Esiste tuttavia un vuoto amministrativo costituito dalla mancanza di una tutela contrattuale che permetta di essere in regola sia a chi usufruisce del profilo professionale sia all’imprenditore che assume.

Quindi i valori non diventano più un bene aziendale. Questo diventa il momento degli obbiettivi.

Quando queste figure sono esterne c’è il rischio che oggi vendano Save the Children e domani vendano marmellate, ma se chiedi il mio parere questo per me deve essere un mestiere; d’altra parte in qualsiasi azienda tradizionale chi oggi vende enciclopedie domani potrebbe andare a vendere bulloni e nessuno si scandalizza; questo è il motivo per il quale oggi Save the Children  ha investito tantissimo per riportare i dialogatori all’interno; vuoi per gestione e tutela contrattuale, vuoi per formazione. Crediamo che la qualità di un dialogatore che faccia parte dell’organizzazione arrivi molto più forte esternamente.

E infine, la domanda sulle prospettive. Il Terzo Settore è un target interessante per chi cerca lavoro? Ci sono spiragli?

La più grossa difficoltà che ho trovato e che trovo ancora è la cultura che c’è intorno al terzo settore in Italia. Finalmente l’ISTAT  nel 2014 ha iniziato a fare qualche studio di settore. Stiamo cercando di lavorare in questo settore cercando di portarlo ad un livello qualitativo, di efficienza e competenza che potresti avere in Deloitte o in qualunque altro gruppo tradizionale profit, ma farlo in un contesto dove prima devi far capire cosa stai facendo è probabilmente l’ostacolo più difficile. Quando ci confrontiamo con i colleghi inglesi e americani, loro condividono con noi un settore molto florido, un’opportunità di lavoro interessante che spesso viene scartata dai giovani, che esiste ed è reale.

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