Editoriale 75 – Quante Lombardie

Confessatelo anche voi: se sentite dire Lombardia vedete solo Milano. È inevitabile. È comprensibile. È incalzante. C’è un occhio di bue che certa politica e certa informazione italiana ha puntato fisso lì da anni, su quel pezzo di Nord. Il faro punta a Milano, fisso e dritto in faccia, tutto il resto della regione è […]

Confessatelo anche voi: se sentite dire Lombardia vedete solo Milano. È inevitabile. È comprensibile. È incalzante. C’è un occhio di bue che certa politica e certa informazione italiana ha puntato fisso lì da anni, su quel pezzo di Nord. Il faro punta a Milano, fisso e dritto in faccia, tutto il resto della regione è in ombra; il faro ne estrae la bellezza, un po’ la ritocca con effetti speciali, fa luce sui pregi e le opacizza i difetti. Professionalmente c’è un pezzo d’Italia che, appena può, converge su Milano come fosse un santuario del lavoro, greggi affamate di attingere a un’acqua benedetta che possa risanarli dal peccato e dalla colpa di non esserci nati o vissuti. Ma il lavoro in carne e ossa sta da altre parti, sta nelle nelle province di cui non si fa mai il nome. Come racconta Aldo Bonomi – con parole lucide da sociologo del territorio – quelli che vediamo a Milano sono flussi, nel bene e nel male.

Come in tutte le regioni dai capoluoghi egocentrici, la vanità del singolo penalizza il gruppo.

A volerla immaginare ben oltre lo stivale che l’hanno costretta a calzare, l’Italia ha una forma tutta sua, di sicuro eccentrica; è fatta di regioni grasse e magre, più larghe o più strette, regioni che si espandono per orgoglio e senso di appartenenza e regioni che si condannano in eterno a chiudersi per insicurezza, regioni che mentono e regioni che dicono troppe verità.

È il carattere di chi ci vive a plasmare la forma dei luoghi così come è l’aderenza degli abitanti a quei luoghi a condizionare il metro di misura per chi da fuori li guarda. I milanesi lo sanno bene, fieri di starsene là con un buon pezzo di storia italiana sulla punta della lingua, sempre intrepidi nel rivendicare diritti e confini, paternità e primati.

Milano va veloce ma velocemente brucia chi si ritrova intorno.

Milano drena anche quello che spetterebbe alle province sorelle o alle cugine, Milano assorbe come fosse la figlia unica cui è tutto dovuto.

Spesso Milano è un peccato.

Le altre Lombardie non possono che farla passare, farle strada – nessuna ha le sue carte da investire, le coperture, la politica, i media, le vetrine – anche se qualcuna ci prova a smarcarsi e a cercarsi altri mercati e altre storie. 

Le altre Lombardie un po’ la guardano, un po’ la invidiano; la criticano pur non potendone fare a meno, in un modo o nell’altro le girano intorno. Lavorano e sudano molto più di lei ma mezza Italia non sa nemmeno collocare Mantova, Monza, Lecco, Bergamo, Pavia o Varese che da decenni mettono a terra fabbriche e produzioni mentre lei coi guanti bianchi sfila, conta i soldi, offre servizi, fa cultura, strizza l’occhio all’Europa, spopola sui giornali, prende il meglio, fa banco. Più lei si espande più loro spariscono dai radar del giornalismo e delle storie che ci vengono date in pasto; quanto lavoro si macina nella Lombardia intera ma alla fine tutti a dire che è solo sotto il Duomo che se viv la vita e se sta mai coi man in man.

I lombardi stanno stretti, è chiaro.

Trovano sempre qualcosa da rivendicare, che sia un confine o una moneta o una lingua tutta loro.

Da un lato le Lombardie strette e strattonate da Milano – che a modo suo pur le traina – e dall’altro Milano stessa che sgomita dentro la sua bella Italia mentre si professa Europa, la più europea del reame, la meno italiana di tutte perché la coperta comunque resta corta. 

Però non tutte le province spacciate per minori provano a tirarsi fuori dall’anonimato ingiusto, anzi ci si accomodano bene dentro e trovano spazio per lamentarsi meglio. Altre Lombardie sono complici dello stallo in cui oggi annaspano e basta addentrarsi nelle logiche industriali locali per capirne i perché, rimaste immobili e a caccia di fiato che venga rigorosamente da fuori. Non poche le province ferite e graffiate dai tempi in cui le famiglie o i gruppi che facevano grande l’Italia nel mondo sbafavano intanto sull’ambiente e inquinavano la terra e la vita di famiglie intere. C’è chi ha ancora polvere d’oro nei polmoni sotto forma di scorie ma non può mica portarselo al negozio sotto casa cambio oro per barattare soldi e salute.

Sono tante le Lombardie che ancora inquinano, hanno inquinato, inquineranno si spera sempre meno: troppe le province segnate dalle scorie che graffiavano l’ambiente quando stava bene a tutti e intanto graffiavano anche la vita della gente, i polmoni, la pelle, il cuore, i cervelli fritti dal mercato e dai veleni tossici. Oggi tanta Lombardia è corrosa, sedotta e abbandonata dalle fabbriche. Il capoluogo di regione fa la voce grossa ma non ha più la grinta rivoluzionaria di una volta; del resto la storia l’ha vista traghettare dalle cinque giornate di Milano alle giornate della moda; la passerella continua a piacerle, questo è un fatto.

La sensazione è che nelle province lombarde la vita fatichi di più ad arrivare a fine mese e che a Milano se la cavi meglio seppur per meriti non sempre suoi. Fuori Milano la vita salda, produce, martella, inchioda, pendola, straripa, pena, crea, tesse. In pochi lo sanno e lo raccontano.

Milano primadonna fa da palco e da quinta per tutte le altre che vengono messe solitamente a sedere tra il pubblico, talvolta persino pagando il biglietto; le abbiamo invitate dentro questo nostro reportage per mettersi una volta tanto sulla scena.

Sfegatati dei primati, qui vantano anche il record del Comune più piccolo d’Italia stando all’ultimo censimento disponibile: si chiama Morterone, la provincia è quella di Lecco, gli abitanti poco più di trenta, un pugno di case e un solo ristorante sempre aperto, un postino che passa solo il lunedì.

L’Italia ha bisogno di una città come Milano ma con meno trucco, la Lombardia ha bisogno di una città come Milano ma con meno ego, le altre province hanno bisogno di una città come Milano ma con più candore. Gaber e Jannacci mancano ogni giorno di più perché la “loro” Milano era una città di tutti che, per crescere, non rinunciava alle persone e glielo faceva sentire, accoglieva i diversi e li metteva insieme, aveva le idee chiare nel suo passare da una città degli anni Sessanta come tante altre a una vera e propria metropoli. Sono stati capaci di metterla in musica e in teatro perché lei per prima si è fatta prendere e raccontare dal verso giusto, con la sua malinconia struggente e i suoi punti deboli a renderla ancora impressa nelle memorie e ancora più bella. Oggi pare invece che Milano vada dritta per la sua strada in solitaria, le idee le ha sempre chiare ma con loro ci va a competere in mezzo alle grandi europee dimenticandosi le origini, a volte rinnegandole. Il gioco è pericoloso. Proprio perché sei il capitano non dovresti rubare il pallone alla tua squadra eppure Milano se lo scorda nonostante tutti quei derby giocati a San Siro.

 

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