Ricoperti d’oro

Il corso del personale pesa dal 60 al 95% del fatturato delle squadre. Un giro d’affari che vale oltre 400 milioni di euro. Per sostenerlo i club svendono giocatori o fanno debiti. Ma qualcosa dovrebbe cambiare

Prendiamo una qualsiasi azienda di servizi e guardiamo il suo bilancio. Considerando il tipo di società, che vende prestazioni e non beni, la voce di spesa più alta che troveremo sarà probabilmente quella degli stipendi. Pensiamo ora che questa voce pesi sul fatturato per il 60 – 70%, fino a un picco del 95%. Una qualsiasi azienda di questo tipo sarebbe già fallita, ma non una squadra di calcio.

Gli stipendi dei calciatori costituiscono infatti un macigno sui conti di fine stagione che le squadre, soprattutto quelle italiane e più piccole. Nonostante i club facciano sempre più fatica a sostenerli, questi valori sono ormai una prassi consolidata, che solo ora le federazioni stanno cercando di limitare.

Stipendi per oltre 400 milioni

«Il costo del lavoro nel mondo del calcio resta uno dei problemi principali di tutto il settore», spiega Diego Tarì, fondatore del giornale online Tifoso Bilanciato ed esperto di finanza sportiva. Stando ai dati della Gazzetta dello Sport elaborati da Tarì, le 20 squadre della Serie A 2015/16 hanno inserito nelle loro rose 538 calciatori in totale con un costo netto per gli stipendi di 439 milioni di euro. Rispetto alla stagione passata il numero di calciatori è sceso del 3% ma il costo delle rose ha avuto una tendenza opposta, salendo di 15,2 milioni (+ 3,6%). Chi ha speso di più è stata la Juventus (62,2 milioni, con una media di 2,4 milioni a calciatore), Roma (56,6 milioni, 2,1 di media), Milan (50,4 mln; 1,8 di media) e Inter (47,5 mln; 1,7 mln a calciatore).

A livello generale, la media di stipendio è di 817 mila euro per giocatore, ma le percentuali sono sbilanciate. Oltre un terzo dei giocatori (il 33,3%) percepisce fra i 100mila e i 300mila euro netti all’anno, ma in termini assoluti pesano per solo per l’8,3% del costo totale. Pochi calciatori, dunque, si spartiscono la fetta di torta più grande. «Abbassare questi valori sarebbe impossibile senza un intervento a livello Ue – spiega Tarì – un’iniziativa solo italiana renderebbe il nostro campionato meno appetibile per i giocatori più bravi, che andrebbero altrove per guadagnare di più».

Dalla tv al portafogli

Ma questi costi così alti sono sostenibili per i club? «In realtà no», spiega Tarì, «in particolare perché oggi le squadre, soprattutto quelle di seconda e terza fascia, prendono il 60-80% dei propri ricavi dai diritti Tv, che nella Serie A hanno un giro d’affari pari a 924 milioni (contro i 2,24 miliardi della Premier League inglese). Il resto viene dagli stadi, dagli sponsor e dal merchandising, ma si tratta di cifre basse, soprattutto per i piccoli club: parliamo di 5-7 milioni dagli sponsor per una squadra nella seconda metà della classifica contro i circa 80 del Milan, ad esempio». Il problema però è che «la maggior parte i soldi che arrivano dalla Tv passano direttamente alle tasche dei calciatori. Ciò mette in difficoltà le grandi squadre e penalizza i club più piccoli».

Questo avviene in particolare in Italia rispetto al Regno Unito, dove la disparità di guadagno fra club è maggiore: una squadra come il Crotone in Serie A ha guadagnato circa 20 milioni di diritti Tv. La stessa promozione in Regno Unito avrebbe fruttato al club circa 130 milioni, una cifra superiore di quanto guadagnato dalla vincitrice Juventus.

Debiti e calciomercato

«I diritti Tv sono sufficienti solo per pagare gli stipendi. Per far fronte alle altre spese, i club ricorrono principalmente al calciomercato», evidenzia Tarì. Nella sessione invernale dell’ultimo campionato, i 20 club di Serie A hanno realizzato operazioni che hanno prodotto circa 15 milioni di plusvalenze nette (con club che hanno investito, Udinese e Sassuolo su tutte, e club che hanno invece puntato al risultato economico, Inter e Roma in particolare) impegnando le squadre per una cifra pari a circa 12,6 milioni.

«Chiaramente – osserva – il guadagno è relativo: se una squadra ha una posizione finanziaria solida potrà essere competitiva in fase di contrattazione del giocatore e fare cassa. Al contrario, una squadra che ha bisogno di impoverire la rosa per far fronte all’indebitamento finanziario rischia di cedere i propri giocatori a sconto».
Dopo il calciomercato c’è il ricorso al debito. «Negli ultimi anni il livello d’indebitamento totale delle squadre è aumentato, in particolare quello bancario», afferma Tarì. Nel campionato 2013-14 i debiti, al netto dei crediti, sono stati di 1,7 miliardi (da 1,5 nel 2012-13), +27% in cinque anni. In particolare il debito verso le banche è passato dall’essere il 37% del totale al 42% dell’ultima stagione.

La situazione, però, sembra destinata a cambiare. O almeno questo è quello che sperano le federazioni calcistiche introducendo delle norme per distribuire il costo degli stipendi. Il “Fair Play Finanziario” del 2009, ad esempio, stabilisce che il costo del personale debba pesare per massimo il 70% dei ricavi (escluse le plusvalenze).
In Italia, invece, il “Manuale applicativo del Pareggio di Bilancio per le Società di Serie A” approvato a gennaio e in vigore dalla stagione 2018/2019, prevede, fra le altre cose, una perdita massima pari al 25% del proprio fatturato, in modo da evitare un indebitamento troppo alto. Resta da vedere se questo basterà a normalizzare il costo degli stipendi delle squadre di calcio a quello di una qualsiasi altra azienda.

CONDIVIDI

Leggi anche

Terzo settore: false associazioni, storie vere

Il fenomeno dell’associazionismo è un vero e proprio universo, estremamente variegato. Un universo i cui confini si estendono ben oltre quelli del cosiddetto “terzo settore”, almeno nell’accezione tecnico-giuridica che è stata definita dalla riforma contenuta nel D. Lgs. 117/2017. Fuori per legge partiti e sindacati, fuori per scelta tante piccole associazioni; dentro, a pieno titolo, […]