Se gli editori ricominciassero a fare il loro mestiere

L’editoria italiana non ha la febbre alta secondo Giovanni Pelizzato, di certo però è confusa: il suo è un nome che a Venezia ha fatto storia, terza generazione alla Toletta – oggi la libreria più antica della città  – e nipote di quell’Angelo che nei primi anni ’30 trasformò in negozio il banchetto da cui […]

L’editoria italiana non ha la febbre alta secondo Giovanni Pelizzato, di certo però è confusa: il suo è un nome che a Venezia ha fatto storia, terza generazione alla Toletta – oggi la libreria più antica della città  – e nipote di quell’Angelo che nei primi anni ’30 trasformò in negozio il banchetto da cui aveva prima iniziato a vendere la propria biblioteca personale e poi a comprare.

“Era un contesto storico e sociale oggi impensabile per questa città. Mio nonno era sempre stato un lettore pieno di fervore, pur nato da genitori analfabeti in una Venezia a dir poco arretrata. Iscritto al PCI dalla famosa scissione del Congresso di Livorno del ’21, dovette andarsene per qualche anno a Milano che qui, per lui, tirava brutta aria. Poi la dura crisi di fine anni ’20 e la decisione di rientrare, creando un luogo di incontro che non ha mai rinunciato alla sua responsabilità. Dopo mio padre e mio zio, io questa libreria l’ho presa in mano a 28 anni, era il ’94, con in tasca una laurea in economia e non in lettere, come si potrebbe immaginare per chi fa il mio mestiere”. Giovanni si definisce un lettore “medio-grande” coi suoi 30-50 libri letti ogni anno. “Sì, però rispetto agli accaniti leggo meno”.

Cerchiamo di interpretare il senso di resistenza ma dalla parte del lettore, più che del libraio. Verso cosa non siamo più così adesivi?

Posta così, la domanda è interessante perché mi permette di partire dal lettore e non dal mio lavoro. Diciamo che da qualche anno la lettura può essere interpretata come una forma di resistenza ma è fondamentale interrogarsi verso cosa e con quali metodi. Banalmente potremmo dire resistenza a quel profluvio continuo di informazioni dalla rete. Volenti o nolenti ne siamo travolti: per praticità le chiamo informazioni ma sappiamo bene che spesso non lo sono. Le subiamo indirettamente queste notizie più o meno volute, più o meno gradite e, davanti a questo stillicidio, chiunque è in grado di percepire che vengono selezionate da altri al posto nostro. In un certo senso è anche un problema di fonti perché ci richiedono l’impegno di discernere in base a veridicità e interesse, per non dire credibilità. Un vero e proprio esercizio che spesso e volentieri ci pone in una condizione di attenzione – quasi di guardia mi vien da dire – verso tutto ciò che proviene da fuori. Ecco, questa condizione è proprio l’antitesi di quella che prelude alla lettura di un libro basata invece su scelte, oltre che su serenità, ascolto, fiducia.

Anche il lettore che legge assiduamente, e questo commento lo faccio da lettore, oggi ha a che fare col flusso impietoso dalla rete; per i lettori deboli, quelli per cui la lettura è più uno sforzo che un automatismo, una condizione simile diventa preponderante e distorsiva rispetto alla volontà di leggere. Mai come oggi abbiamo bisogno di maggiori forme di resistenza perché quell’ora di tempo che prima veniva magari dedicata alla lettura, adesso viene cannibalizzata dalla rete.

Ma questa libertà di leggere ce l’hanno rubata o l’abbiamo ceduta per comodità?

Il lettore forte è consapevole di questa trasformazione e non la subisce. Cerca sicuramente di confinare le distrazioni ma accetta anche di destinare una parte del proprio tempo a quelle attività in rete che prima non conosceva, ed è giusto che sia così. Da libraio, lui per me resta un lettore abituale, non mi accorgo del suo calo impercettibile, lo sento vicino e so che porta avanti una battaglia come me, come tanti. Sempre da libraio, altra cosa è capire invece  il lettore debole che in parte o in tutto abdica a quella informazione invasiva; lui sfugge quasi totalmente al nostro occhio.

Facciamo cadere un po’ di ipocrisia dal mondo editoriale. Ci saranno pure difetti interni al sistema. 

Credo calzi ancora bene un principio di cui sono convinto da almeno vent’anni: la qualità dell’editoria italiana è molto più elevata di quella che è la sua fruizione. Mi spiego meglio con un esempio spesso poco considerato, che sono le traduzioni dei saggi. L’editoria italiana traduce molto di più di quella francese e non possiamo certo farlo dipendere solo dal fatto che gli italiani leggano meno in lingua straniera. Si mantiene quello che chiamo eccesso di offerta (qualitativamente e quantitativamente alta) rispetto alla domanda (mediamente scarsa), sempre al netto dei lettori forti. I lettori forti italiani, tra l’altro, sono assolutamente in linea con quelli dei principali Paesi europei ma questo dato non si sottolinea mai nelle statistiche.

Quindi siamo deboli nella fascia intermedia di lettori. La resistenza sta lì.

Già. All’Italia manca la fascia media, da sempre.

Torniamo però ai limiti della filiera: a quale livello il meccanismo si inceppa?

Un conto è la produzione dei libri, un conto è la loro distribuzione e vendita.

Sul primo lato, a parte una diminuita qualità del prodotto e alcune sbavature di alcuni editori di riferimento – dove oggi rispetto a un tempo abbondano i refusi perché tutta la parte di editing è ormai affidata in outsourcing mentre prima avevano in casa queste funzioni secondo me irrinunciabili – io continuo a considerarla solo un’imperfezione, qualcosa di non fondamentale che non intacca la qualità di fascia alta. Anche su questo fronte, il problema sta nella fascia media e, nella continua ricerca di ampliarla, si tende ad abbassare il livello delle pubblicazioni. Ad ogni modo è una condizione diffusa, non solo italiana.

Confessiamo anche le anomalie interne, quelle sul piano commerciale.

Ogni grande fusione e trasformazione editoriale ha riflessi su tutta la filiera ma il problema è poco percepito da fuori. Stanno gestendo l’acquisizione di Rizzoli da parte di Mondadori nella maniera peggiore perché dentro quella filiera mancano oggi le professionalità che potrebbero fare la differenza in un simile momento storico. Grandi nascite come questa sono talmente rare da non poter essere sprecate con una leggerezza simile; messi insieme, questi due marchi fanno metà del mercato italiano almeno dal punto di vista delle potenzialità e invece rischiano di farsi le lotte in casa piuttosto che valorizzare le singole attitudini editoriali e quote di mercato. Più che noi librai, sono agenti e venditori a cogliere il fatto che stiamo perdendo una grande occasione, intendo le figure commerciali sane: loro sì che stanno in mezzo alla filiera e, se vogliono, possono capirne davvero le carenze. Non ci sono più quei grandi esperti di settore che tra gli anni ’80 e ’90 avevano in mano almeno le leve della parte editoriale dentro le grandi case editrici; sono stati sostituiti tristemente da figure commerciali, persone scarse votate ai numeri che nemmeno capiscono bene cosa sia questo strano oggetto con le pagine. Queste figure non sanno cogliere, non sanno davvero ispirare.

Penso a Celati di Einaudi o a Ferrari in Mondadori, profili di altissimo livello che conoscevano limiti e opportunità della parte editoriale delle loro aziende. Chi sapeva di libri aveva una posizione chiave e improntava in modo coerente tutta la linea.

Quindi anche resistenze dall’alto, resistenze dai grandi gruppi editoriali?

Se sulla parte editoriale continuo a ripetere che non abbiamo criticità qualitative se non le occasioni perdute, sulla parte commerciale noto da più di dieci anni gravi responsabilità nei grandi gruppi. C’è un fraintendimento di fondo su quello che avrebbero dovuto fare. Mondadori su tutti, perché la loro politica è evidente: cercare di acquisire in ogni modo quote di mercato ed estendere il numero dei lettori, agendo anche sulla leva del prezzo .

Volevo arrivare proprio al prezzo, che quasi sempre è un alibi.

La frase tipica del non-lettore è “io leggerei ma non ho tempo” oppure “io leggerei, ma con quel che costano i libri!”. I libri non costano tanto, quello che costa tanto in Italia sono le edizioni economiche che economiche non sono perché in quella fascia l’editore si prende di briga di aumentare il prezzo. L’economica non è mai la prima scelta di chi compra un libro per leggerlo, per regalarlo o perché lo ha colpito una buona recensione. Fino alla legge Levi, l’editore se la giocava sul prezzo e sullo sconto senza alcun tetto massimo, ma adesso il sistema è cambiato. Nelle edizioni economiche paghiamo lo scotto delle scarse letture e dei bassi numeri. I libri non sono cari né in senso assoluto né in senso relativo, se pensiamo che ogni tanto basterebbe sostituire due aperitivi con un libro. È sempre e solo una questione di priorità, il resto sono scuse.

(Foto di copertina: Dmitry Ratushny /Unsplash)

 

Libreria La Toletta_Venezia anni ’30 (Archivio Giovanni Pelizzato)

 

 

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