Se insegniamo che le startup “possono” fallire, falliranno

Parlando di startup, con la confusione che c’è intorno al termine e alla sostanza, vengono in mente alcune cose: exit e ragazzini milionari prima di avere la barba, Silicon Valley, cose molto fighe, cose molto tecnologiche, cose molto nuove e persino bizzarre, fallimento. Tra tutte però la parola fallimento occupa una posizione dominante: pare che […]

Parlando di startup, con la confusione che c’è intorno al termine e alla sostanza, vengono in mente alcune cose: exit e ragazzini milionari prima di avere la barba, Silicon Valley, cose molto fighe, cose molto tecnologiche, cose molto nuove e persino bizzarre, fallimento.

Tra tutte però la parola fallimento occupa una posizione dominante: pare che la cifra di tutto stia nella possibilità intrinseca del fallimento; pare che il fallimento sia quasi necessario. La letteratura in proposito, più motivazionale che concreta, ci ha riempito la testa di cose come il “fallisci presto così avrai successo prima”, “non partire troppo tardi”, “l’esecuzione è tutto”, altra roba che insinua e valida la teoria del “non è così importante pianificare perché se fallisci va bene”.

Guardando ad esempio un sito come autopsy.io, uno dei tanti che sdogana ed elogia il fallimento, è impressionante notare come tra i motivi per cui non ha funzionato ci siano cose come “il mercato era troppo piccolo o non esisteva”, “il prodotto non funzionava”, “non era una buona idea come pensavamo”.

La seconda parola che viene naturale associare è dunque confusione. E viene almeno un ragionevole dubbio sul fatto che il vero significato di startup possa essere proprio quello dato da Dave McClure, uno che di startup ne ha create oltre 500:

Una “startup” è una società che è confusa circa – 1. Qual è il suo prodotto. 2. Chi sono i suoi clienti. 3. Come guadagnare denaro.

Startup: Eldorado, l’America, l’Italia

Una situazione nebulosa, nella quale se l’idea di startup è avvincente e affascinante i risultati lo sono decisamente meno: circa il 90% delle startup pare falliscano entro i primi due anni. Come spesso accade, la situazione si complica nel nostro paese, dove abbiamo importato massicciamente tutti i bei concetti senza averne le basi, le fondamenta, la cultura.

Al Nobìlita Festival mi è piaciuto il panel nel quale se ne parlava, già dal titolo emblematico (e probabilmente salvifico) Non chiamatele startup. Non chiamatele startup se questo porta a improvvisare, saltare la gavetta, i test, la pianificazione. Se porta insomma a disconoscere il grande insegnamento alla base di ogni impresa e del quale parlava Edison cento anni fa. Per la cronaca: uno che ha inventato la lampadina, mica l’app per scambiarsi faccine 🙂

Il valore di un’idea sta nel metterla in pratica.

Thomas Edison

Non chiamiamole startup, dunque, se non si tratta di idee che verranno utilizzate, che rispondono a un reale problema, a “un prurito”, per dirla con Michael Arrington. E non parliamo di fallimento, qui in Italia.

La cultura del fallimento e i presupposti mancanti

Forse è vero che fallire non è così male: magari nella Silicon Valley o in altre isole felici, dove i progetti sono davvero finanziati. Non qui in Italia, dove le startup sono più che altro un modo cool per dire autoimpiego, foraggiate insomma da papà e mamma o da pochi spiccioli che non si sa quando finiranno.

Si può permettere di fallire chi vive in un contesto dove chi paga il tuo fallimento non sei tu. E se la società non ti aiuta, la cultura del fallimento importata dall’estero ti fa fare solo uno schianto da cui non ti riprendi.

Luciano Floridi #NobilitaFestival

Luciano Floridi sul palco di Nobìlita. Filosofo italiano, è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford, Oxford Internet Institute, dove dirige il Digital Ethics Lab.

Fallire in Italia è ancora un problema. E per certi versi è anche meglio così. È meglio visto l’andazzo dello startupparo, confuso al pari di chi, nella vita, si protegge a colpi di “sto studiando”. Meglio così se si continua a credere che startup significa fare cose fighe, nuove, strane e con poca innovazione.

Questo invece è peggio. È triste. Come ricordava Floridi dal palco di Nobilita, bisogna smettere di trovare scorciatoie all’italiana e iniziare a ragionare bene sapendo di doversi confrontare con un’economia globale. Un’economia dove più che di startup c’è bisogno di innovazione, di design (inteso non solo come forma, ma come idee), e di cose ben fatte. Cioè di imprese ben fatte.

Mi viene in mente anche un aneddoto che spiega la situazione, raccontato tempo fa da Massimo Cerofolini (anche lui relatore nel panel). Raccontava del lavoro di Andrea Alunni, un ingegnere speciale. Nell’Università di Oxford (che da sola conta 3500 brevetti di rilievo contro i 2000 di tutti gli atenei italiani messe insieme) guida l’ufficio che trasforma gli scienziati in imprenditori. Va a caccia di talenti, crea con loro un rapporto di fiducia, li aiuta a proteggere le idee, a realizzare un prototipo, a comunicare, a conoscere potenziali investitori. È a capo di una squadra con cento esperti, cento manager, che hanno tutti seguito un master dove per un anno si studiano materie scientifiche e per un anno temi finanziari ed economici.

Materie scientifiche, temi finanziari ed economici. Non buzz e viralqualcosa.

Guardiamo invece i buoni esempi (detto in Italiano)

Ormai nella parola #startup c’è qualcosa di vecchio. Dobbiamo reinventare il linguaggio; parole nuove per scuoterci dalla disillusione (e dalla mancanza di investimenti, dove siamo fanalino di coda).

Massimo Cerofolini #NobilitaFestival

Per fare qualcosa di nuovo forse è meglio guardare in casa nostra, osservare i buoni esempi (non le best practice). Due testimonianze su tutte, da Nobìlita:
Vetrya: un’azienda che in pochi anni è stata definita la Google italiana, ormai leader nel campo di cloud computing, telecomunicazioni broadband e big data, non sono in Italia ma in tutto il mondo.
GreenRail: un’azienda che sostituisce i binari obsoleti con traversine create con materiale riciclato, ecologico, che riduce i rumori e le vibrazioni, favorendo un monitoraggio completo di ogni tratto. Un prodotto che sta avendo successo in tutto il mondo (tranne in Italia, chiaramente).

Che cosa hanno in comune queste due aziende, questi due imprenditori visionari? Sono imprenditori. Sono visionari. Sono concreti. E non hanno mai pensato di fare una startup. Già: non chiamatele startup.

 

Photo by fiordirisorse [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr. Photographer: Felicita Russo

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