Spoiler – “Commercianti o commerciali?” nel prossimo Senza Filtro

Nel cinema la parola chiave è pitch: il discorso persuasivo, in forma squisitamente breve, finalizzato a convincere gli investitori a finanziare il progetto. E tuttavia, mutuata dal baseball statunitense (to pitch significa proprio “lanciare la palla”), questa parola identifica in senso lato anche il momento stesso dell’incontro tra autori e filmaker con il mercato potenziale, […]

Nel cinema la parola chiave è pitch: il discorso persuasivo, in forma squisitamente breve, finalizzato a convincere gli investitori a finanziare il progetto. E tuttavia, mutuata dal baseball statunitense (to pitch significa proprio “lanciare la palla”), questa parola identifica in senso lato anche il momento stesso dell’incontro tra autori e filmaker con il mercato potenziale, rappresentato dai broadcaster, delle società di distribuzione e, perché no, anche delle istituzioni: da tutti quei soggetti che hanno il compito di stabilire gli investimenti finanziari sui progetti audiovisivi.

E l’ars dicendi, alla base del pitching, la si esercita nelle pitching session: eventi organizzati appositamente per favorire l’incontro tra producer e autori, anche esordienti e spesso trascurati dai contesti mainstream.

La pitching session e la logline: gli strumenti del cinema persuasivo

Ma raccontare un progetto cinematografico o televisivo in maniera breve, esaustiva e anche persuasiva – in una parola, commerciale – non è impresa da poco. Dal budget agli stakeholder, passando attraverso una logline accattivante, una frase a effetto capace di evidenziare il tema della storia, il conflitto interno e il “gancio narrativo” destinato a catturare l’interesse del fruitore.

«Dopo la cattura in battaglia un ufficiale americano abbraccia la cultura Samurai, che per soldi aveva accettato di soggiogare» è la logline de l’Ultimo samurai (The Last Samurai, E. Zwick, 2003), l’epic movie con Tom Cruise, nominato quattro volte agli Oscar nel 2004.

«Al Bundy è un venditore di scarpe da donna, misantropo e dalla vita modesta. Al detesta il suo lavoro, sua moglie è pigra, suo figlio disfunzionale (specialmente con le donne) mentre sua figlia è promiscua e poco intelligente»: con queste parole i produttori di Sposati… con figli (Married… with Children, M. G. Moye, R. Leavitt, 1987-1997), hanno convinto il network Fox a investire nella serie TV statunitense che, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, infrange con cinismo gli schemi del sogno americano.

Un cinema declinato al commerciale

In definitiva, dunque, comporre una logline e proporsi durante una pitching session sono attività da commerciante. E, forse, anche un po’ da commerciale.

Perché il cinema, si sa, è arte. Ma nella settima arte per produrre bisogna anche saper vendere.

In Italia, si sa anche questo, la cultura commerciante – e commerciale – ha radici antiche e consolidate: dal commercio marittimo alla nascita del contratto assicurativo, che appare per la prima volta proprio nel nostro Paese; in un importante articolo del 1989 il filosofo François Ewald sostiene che la società fa il suo ingresso nell’epoca moderna quando il contratto sociale assume la forma del contratto assicurativo.

E il cinema italiano non è da meno. Dalle primissime pellicole realizzate negli studi di Cinecittà ai classici neorealisti “esportati” in Europa e oltreoceano e che ispireranno con successo le nouvelles vagues successive.

Anche oggi, nel dibattito sul futuro del cinema nel nostro Paese (Zalone, o non Zalone, questo è il dilemma) la dimensione commerciale assume un ruolo importantissimo. Un ruolo che, nel tempo, ha imposto soggetti e sceneggiature sempre più in linea con le esigenze di uno spettatore attento, a seconda dei periodi e dei contesti, alla riflessione intellettuale o alla dimensione di svago e di intrattenimento. Prendono vita le prime pellicole che raccontano il mondo del lavoro, la scalata al potere, il raggiungimento del successo e, qualche volta, la fase del declino.

Ma solo qualche volta, perché il cinema “di genere”, l’industria cinematografica che punta sul profitto, racconta storie che, per citare Vladimir Propp, sono fatte di schemi, di funzioni reiterate. E che, dirette discendenti del mito, del rito e della fiaba spiegano che l’ordine iniziale delle cose sarà sempre e comunque ricostituito. Con tanto di morale alla fine.

Rassicurante, vero? Ecco spiegato il successo di schemi come il classico happy ending.

Nonostante ciò, sono in tanti gli autori che, pur rimanendo all’interno dello schema “di genere” (il “cinema commerciale”), arricchiscono i propri lavori di autorialità.

Capolavori? Sì, ma “di genere”

Vendere, insomma, ma con stile.

Qualche esempio celebre: Ernst Lubitsch e Howard Hawks reinterpretano la sophisticated comedySusanna! (Bringing Up Baby, H. Hawks, 1938) è un film che dà forte spazio all’emancipazione femminile –; Hitchcock reinventa il noir. Ma sempre nel contesto di regole imposto dal cinema “di genere” e, proprio per questo, scarsamente visibili a un’analisi poco attenta.

Per questa ragione, benché il mondo del lavoro ricambi di continuo l’affetto che il cinema gli offre con omaggi, rimandi e citazioni, lo fa spesso in maniera ingenua, utilizzando pellicole celebri come materiali a metà strada fra i racconti moralizzanti degli exempla e le progressioni formative del Bildungsroman.

I dieci film sulla vendita da non perdere!

L’etico Jerry Maguire, che molla tutto e si mette in proprio (Jerry Maguire, C. Crowe, 1996); il broker Jordan Belfort che truffa i clienti per arricchirsi (The Wolf of Wall Street, M. Scorsese, 2013); l’inventrice del mocio Joy Mangano, fra le maggiori imprenditrici statunitensi (Joy, O. Russell, 2015) operano, a un’analisi sbrigativa, una vera e propria sostituzione per antonomasia fra il protagonista del racconto e il modello propagandistico di successo a tutti i costi così in voga oggi. Ma dal quale personaggi di spicco del mondo della cultura come la filosofa Michela Marzano prendono sempre più spesso le dovute distanze.

Pellicole come Thank you for smoking (id., J. Reitman, 2005) e Tra le nuvole (Up in the Air, J. Reitman, 2009) sono fra le più quotate per parlare di vendita e motivazione, problem solving e perseveranza. Da qualche parte c’è chi scrive addirittura che La vita è bella (id., R. Benigni, 1997) spiega la customer satisfaction e Pretty Woman (id., G. Marshall, 1990) fa il focus sul customer care.

Un parallelo quantomeno forzato.

Un po’ come Christiane F. e i ragazzi dello zoo di Berlino (Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, U. Edel, 1981) che, in una visione sbrigativa e superficiale, venivano mostrati nei cineforum colmi di tredicenni per parlare di eroina. Mitizzandola.

Il caso “The Founder”

La stessa sorte è toccata a The Founder (id., J. Lee Hancock, 2016). Ispirato a fatti realmente accaduti, la pellicola racconta la vera storia delle origini del colosso McDonald’s attraverso la vicenda di Ray Kroc, venditore di frullatori di provincia, che per primo scommette sulle potenzialità di un marchio – e della catena di montaggio applicata al food – destinato a invadere il pianeta.

Ma la realtà va oltre le apparenze. E, nonostante le indubbie qualità metonimiche del film (annoverato in lungo e in largo fra “i dieci film che ciascun venditore dovrebbe guardare”), il biopic di John Lee Hancock offre in realtà uno spaccato decisamente ampio sull’American Dream, cui i valori morali dell’amicizia e del rispetto vengono evidentemente sacrificati in nome di un riconoscimento sociale, inteso come fine ultimo dell’esperienza umana.

A uno sguardo più attento, dunque, quegli stessi film che vengono utilizzati per sottolineare i concetti di profitto e successo non si prefiggono, nella realtà, lo scopo motivante – e un po’ commerciale – che si attribuisce loro. Specie perché, ogni pellicola si inserisce in uno spazio (Jurij Lotman parlerebbe di semiosfera), all’interno del quale ciascun sistema di segni (dall’arte alla lingua, dalla musica al cinema) genera informazioni nuove.

Proviamo, allora a guardare il film assieme a due pellicole, che affrontano lo stesso tema ma da diversi punti di vista: quello di chi, la materia prima destinata alle catene di fast food la produce e la vende (Fast Food Nation, R. Linklater, 2006) e quello di chi, più o meno beatamente, la mangia ogni giorno (Super Size Me, M. Spurlock, 2005).

Vedremo, così, che gli archetipi dell’intuizione e della capacità di vendere un’idea di successo non sono universali e assoluti come invece sembrerebbero. E che ciascun film può essere strumentalmente convertito: da un discreto commerciante, con funzione commerciale.

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