Spoiler – “Lavoro e low cost” nel prossimo Senza Filtro

Quali sono gli strumenti attraverso cui una società  definisce il concetto di “equa retribuzione”? Su quali valori si fonda il principio di “paga adeguata al lavoro svolto”? E oggi, al tempo di Uber, di Foodora e del consumo ultraveloce è ancora plausibile pensare all’idea di “giusto compenso”? Oggi come ieri, nel mondo del cinema che […]

Quali sono gli strumenti attraverso cui una società  definisce il concetto di “equa retribuzione”? Su quali valori si fonda il principio di “paga adeguata al lavoro svolto”? E oggi, al tempo di Uber, di Foodora e del consumo ultraveloce è ancora plausibile pensare all’idea di “giusto compenso”?

Oggi come ieri, nel mondo del cinema che racconta il lavoro, la questione rimane aperta. E, mentre i grandi cambiamenti economici fanno da sfondo alle riflessioni di registi e autori, colletti blu e colletti bianchi sfilano di fronte alla macchina da presa, nel tentativo di fornire chiavi di lettura sempre più autorevoli.

La vicenda di Ludovico Massa aka Lulù, che si dipana in piena riflessione post-sessantottina, ne è un esempio. Stakanovista, servile, accesissimo sostenitore del lavoro a cottimo: Lulù segue pedissequamente le istruzioni diffuse in fabbrica all’inizio del turno, secondo cui la salute dell’operaio dipende dal suo rapporto con la macchina. «Rispettate le sue esigenze – puntualizza l’annuncio – e non dimenticate che “macchina più attenzione, uguale produzione”» è l’ironica chiusa.

Finché un giorno, in seguito a un incidente sul lavoro, Lulù perde un dito. E con esso, le sue certezze. Lulù comincia a girovagare per la casa catalogandone uno a uno gli oggetti e constatando che a ogni oggetto corrisponde un costo. E che a ogni costo corrisponde un certo numero di ore-lavoro. Lulù ripensa con amarezza alla voce di quello studente, che nel segno dell’autunno caldo accoglie gli operai ai cancelli d’ingresso della fabbrica: «Sono le otto del mattino. Oggi quando uscirete sarà già buio. Oggi per voi la luce del sole oggi non splenderà» è la cocente constatazione.

E all’improvviso il fascino del cottimo si dissolve; la produttività perde charme. E l’ambìto lavoro alla catena di montaggio diventa, a tutti gli effetti, un vero e proprio lavoro low cost (La classe operaia va in paradiso, E. Petri, 1971).

https://www.youtube.com/watch?v=nE59NDKC7TY

Di lavoro low cost si parla anche nella Londra thatcheriana dove Stevie, uscito di prigione, trova impiego in un cantiere come operaio edile. Ma le condizioni sono precarie e i diritti scarseggiano. Sfrattati dalle vecchie case popolari, gli operai thatcheriani vengono privati anche delle più elementari norme di sicurezza. E l’incidente sul lavoro sarà inevitabile (Riff Raff, K. Loach, 1991).

Mentre fra i banconi di un ipermercato francese fa il suo ingresso Thierry Taugordeau, cinquantunenne neo-disoccupato, che dopo mesi di ricerca riesce a trovare un impiego come addetto alla sicurezza. Ma nella Francia che si prepara a varare la Loi Travail, Thierry è costretto a misurarsi con le leggi di un mercato sempre più spietato, che cannibalizza l’individuo attraverso una parvenza di sostegno e solidarietà. E dove il nostro protagonista si troverà presto davanti a un importante conflitto morale, quando dovrà decidere se denunciare o meno alcune persone prive dei mezzi per pagare, o addirittura i suoi stessi colleghi (La loi du marché, S. Brizé, 2015).

«Il cielo stellato sopra di me; la legge morale dentro di me», scrive Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pratica (Kritik der praktischen Vernunft, 1788). E dunque, si domanda Thierry Taugordeau, la dignità umana rappresenta o no il giusto compenso per un lavoro che, a tutti gli effetti, si palesa davanti ai suoi occhi come eticamente low cost? E  cosa è realmente disposto a fare, pur di mantenere un lavoro?

Ed è nuovamente il lavoro low cost il protagonista della vicenda di Marta, Sonia, Lucio e degli altri dipendenti della Multiple Italia, l’azienda romana specializzata nella vendita di un apparecchio di depurazione dell’acqua, promosso attraverso un’intensa attività di call center.

Marta, laureata in filosofia teoretica con lode e rifiutata sia dal mondo accademico che dell’editoria svolge il suo lavoro di telefonista con perizia e professionalità. Finché un giorno, dopo aver fatto credere a un’anziana cliente di essere una vecchia amica della nipote per conquistarne la fiducia, scopre che quest’ultima si è tolta la vita. Proprio perché non riusciva a trovare un lavoro (Tutta la vita davanti, P. Virzì, 2008).

https://www.youtube.com/watch?v=s9c5HiwagmU

L’art. 36 della Costituzione italiana parla chiaro: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (seguiteci il 23 e il 24 marzo a Bologna: ne parleremo a Nobìlita Festival). E tuttavia, al termine di questo breve excursus nel mondo del lavoro raccontato dal cinema, il confine fra retribuzione proporzionata e lavoro low cost appare sempre più labile.

Ne sa qualcosa Vittorio Cataldi, detto Accattone, un sottoproletario delle borgate romane che non studia, non lavora (un NEET, diremmo oggi) e che vive alle spalle di Maddalena, una prostituta “sottratta” a un napoletano finito in carcere. Un giorno Accattone s’innamora di Stella. E, per mantenere la sua donna, accetta un lavoro come fabbro. Ma presto Accattone comprende che il lavoro è spesso alienazione, fatica. Squilibrio fra chi quel lavoro lo offre e chi ne ha bisogno per sopravvivere. «Quando si lavora – in definitiva – nessuno regala niente» è l’amara chiosa.

«Pe pijà ‘ste mille lire zozze me sò annato a rovinà», inveisce il giovane, al termine di una dura giornata. Ed ecco che l’annunciato destino si compie. Accattone decide di fare il salto di qualità nel crimine ed esordisce come ladro, ma il suo primo furto gli costa la vita in un incidente con la motocicletta. «Mo sto bene», saranno le sue parole finali, rivolte al compagno che lo soccorre (Accattone, P. P. Pasolini, 1961).

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