Titoli professionali in Europa: low cost e far west

Appare oggi quanto mai opportuno riflettere sul fenomeno dell’equivalenza dei titoli di studio e sull’accessibilità delle professioni intellettuali in Europa. È necessario capire se questa misura, inizialmente pensata dai governi degli Stati europei per favorire la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno degli Stati membri, unita a una sempre maggiore informatizzazione del lavoro e digitalizzazione […]

Appare oggi quanto mai opportuno riflettere sul fenomeno dell’equivalenza dei titoli di studio e sull’accessibilità delle professioni intellettuali in Europa. È necessario capire se questa misura, inizialmente pensata dai governi degli Stati europei per favorire la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno degli Stati membri, unita a una sempre maggiore informatizzazione del lavoro e digitalizzazione del sistema giudiziario, non rischi di portare nel prossimo futuro molti professionisti italiani a doversi confrontare con un nuovo fronte di professionisti appartenenti ad altri Paesi, in grado di competere sul mercato senza neppure doversi alzare dalle loro scrivanie.

Questa situazione rischia di verificarsi in Paesi come l’Italia, nei quali, per condizioni economiche e fiscali, i professionisti si trovano in una situazione di svantaggio rispetto ai loro colleghi stranieri, appartenenti a legislazioni che consentono loro di svolgere le medesime attività con tariffe low cost.

Che sia giunta l’ora anche per gli avvocati – dopo i dentisti, i chirurghi estetici e gli esercenti di attività commerciali turistiche – di iniziare a temere la concorrenza dei colleghi stranieri di una certa parte d’Europa? Per comprendere la portata di tale fenomeno occorre anzitutto far chiarezza sull’attuale quadro normativo italiano di riferimento per il riconoscimento e l’equipollenza dei titoli di studio stranieri e delle professioni.

Nel nostro Paese, a partire dalla ratifica della Convenzione di Lisbona, il riconoscimento o l’equipollenza dei titoli di studio – a seconda delle finalità scolastiche o professionali – sono stati suddivisi in base alla competenza alle seguenti Autorità italiane: gli Uffici Scolastici Provinciali per quanto concerne l’equipollenza dei diplomi di livello preuniversitario; le Università per l’equipollenza dei titoli di studio esteri di livello accademico; il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca per l’equipollenza accademica dei PhD esteri e, infine, i Ministeri competenti per materia per quanto concerne il riconoscimento dei titoli abilitanti allo svolgimento di professioni regolamentate. Come l’avvocatura.

Nello specifico, per quanto attiene alla professione forense, per ottenere il riconoscimento del relativo titolo professionale – così come di altri titoli professionali conseguiti nell’ambito dell’Unione europea ai fini dell’esercizio della professione in Italia – è necessario ottenere il riconoscimento dei titoli professionali ai sensi del D.lgs. n. 206 del 9 novembre 2007 in attuazione della Direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. In particolare, ai sensi dell’art. 22 del suddetto Decreto, il riconoscimento della professione di avvocato è subordinato al superamento di una prova attitudinale, che consiste in un esame in lingua italiana articolato in una prova scritta e una orale o, in alcuni casi, solo in una prova orale.

Inoltre il profilo professionale di avvocato nella Comunità europea presenta delle ulteriori particolarità, rappresentate da due direttive settoriali: la Direttiva 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, recepita in Italia con il D.lgs. 2 febbraio 2001 n. 96 e la Direttiva 249/1977/CE, recepita in Italia con la L. 9 febbraio 1982, n. 31 che disciplina la libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri della Comunità europea.

Quali sono i rischi concreti per gli avvocati italiani?

Nonostante ciò va comunque osservato che, a dispetto dell’ingente mole di leggi varate in materia e dei continui sforzi (nazionali ed europei) nel recepire tale impegno verso un’integrazione sempre maggiore delle professioni intellettuali, ad oggi continuano a esistere delle condizioni di accesso alla professione di avvocato troppo restrittive e complesse, che si traducono fattivamente in ostacoli insormontabili all’ingresso nel mercato del lavoro italiano di professionisti provenienti da altri Stati membri.

Tuttora persiste, nonostante il crescente sviluppo delle tecnologie ed importanti passi avanti in tema di digitalizzazione nel mondo della giustizia (come l’introduzione del processo civile telematico), un’insuperabile dicotomia: da un lato lo sforzo delle istituzioni nazionali e sovranazionali a parificare i titoli di studio e facilitare l’esercizio delle professioni intellettuali in ambito italiano; dall’altro una complessità eccessiva della regolamentazione nell’accesso alla libera professione di avvocato, che rimane tuttavia fondamentale per garantire protezione e tutela degli interessi degli assistiti.

Ormai da tempo le Istituzioni europee sostengono che una riduzione degli ostacoli all’ingresso nel mercato del lavoro dei diversi Stati membri avrebbe un effetto vantaggioso nel consentire un incremento del numero dei professionisti, facendo aumentare la concorrenza a vantaggio della qualità, anche sotto il profilo dell’innovazione e della modernizzazione, e portando dei vantaggi nell’occupazione, con la possibilità di un più forte ingresso e mobilità di giovani tra i professionisti.

Ma siamo davvero certi di poter condividere una simile affermazione? Un attento osservatore infatti non può fare a meno di notare come all’interno del panorama italiano la professione forense sia già fin troppo diffusa. Un ulteriore, indiscriminato aumento dei suoi componenti potrebbe rischiare di rompere un già fragile equilibrio, con conseguenze disastrose per tutto il settore in Italia.

Possono quindi tirare un sospiro di sollievo gli avvocati italiani di fronte a un pericolo scampato? Non proprio. Infatti, mentre sono intenti a cullarsi nella confortante consapevolezza che non saranno di certo i colleghi stranieri a insidiare il loro mercato, stanno probabilmente sottovalutando altri pericoli, maggiori e ben più concreti, da cui la categoria si dovrà avvedere nel prossimo futuro.

Appare infatti molto più verosimile, e grottesco al tempo stesso, teorizzare come gli strumenti tecnologici, che oggi tanto sono d’aiuto e semplificano per gli avvocati lo svolgimento della professione in tutti i suoi aspetti, potranno in breve tempo soppiantare definitivamente i professionisti in carne ed ossa, supportati da un’intelligenza artificiale ormai giunta al suo stadio di maturazione. Uno scenario futuro degno di uno dei migliori romanzi di Isaac Asimov.

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