Un tavolo per due in carcere a Volterra

Volterra non è solo l’alabastro che campeggia in ogni bottega, impossibile negare che l’artigianato sia uno strato della sua pelle ma non è l’unico. Proprio dietro quelle vie del centro storico, su in cima alla città, la Fortezza Medicea – se la guardi da fuori – quasi dissimula la sua natura perché si atteggia a […]

Volterra non è solo l’alabastro che campeggia in ogni bottega, impossibile negare che l’artigianato sia uno strato della sua pelle ma non è l’unico. Proprio dietro quelle vie del centro storico, su in cima alla città, la Fortezza Medicea – se la guardi da fuori – quasi dissimula la sua natura perché si atteggia a monumento turistico come gli altri e invece custodisce un carcere.
Lo chiamano “trattamentale” ma quel carcere bisogna farselo aprire con le chiavi lunghe e pesanti per capirci qualcosa e bisogna anche aspettare che ogni porta si richiuda col rumore secco prima di aprire la successiva e fare un passo verso la normalità rieducativa che il Direttore penitenziario Maria Grazia Giampiccolo lì dentro disegna e struttura da anni.

I detenuti arrivano a 150: per due terzi italiani, quasi un terzo con pene superiori a 24 anni o con l’ergastolo, la fortuna di non sapere però cosa sia il sovraffollamento. Di speciale c’è che la parola lavoro risuona forte nel carcere di Volterra per i detenuti che si sentono ancora un pezzo di società civile e là vogliono tornare con una dignità recuperata. Sono 68, ad oggi, le persone impiegate con turnazioni mensili.
“Non tutti possono accedere alle attività lavorative previste nel nostro Istituto e al tempo stesso non tutti hanno interesse a farlo. Il carcere del resto è uno spaccato rappresentativo delle singole personalità e individualità che ritroviamo nella vita di ogni giorno. Ci sono criteri rigidi per essere ammessi, ispirati non tanto al tipo di pena da scontare quanto soprattutto a importanti valutazioni sulla persona e sul profilo in questione”, sottolinea il Direttore. “I servizi prestati a supporto delle attività della struttura prevedono una retribuzione che non deve essere inferiore ai 2/3 di quella stabilita dai lavoratori di pari categoria dal contratto di lavoro collettivo nazionale. Chi lavora segue indicativamente l’orario dalle 5.30 alle 12.30 più tre ore la sera per chi si occupa dei pasti”.
E’ chiamata da sempre mercede, in ogni carcere d’Italia, quella paga prevista dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario che spesso finisce al centro di polemiche e denunce da parte degli stessi detenuti nei confronti di uno Stato che, mentre li rieduca alla legalità, li sottopaga per carenza di fondi: i livelli di retribuzione, all’incirca sui 2,5 euro all’ora, sono addirittura fermi al 1994 e non sono pochi i casi di condanne in capo alla Pubblica Amministrazione.

E’ il paradosso estremo se si pensa che nel frattempo è anche aumentata la cosiddetta quota di mantenimento, somma che i detenuti pagano per i servizi che vengono loro corrisposti.
“Tra avere soldi e non averli c’è una grande differenza anche qui dentro. Lavorare e guadagnare – seppur poco – restituisce ai detenuti una autonomia nell’acquisto di piccoli oggetti personali ma soprattutto li libera da qualsiasi forma di dipendenza nei confronti degli altri”. Una sociologia profonda restituita con parole semplici quella dell’Ispettore Paolo Iantosca che ci tiene a segnare un solco ulteriore per rimarcare quanto sia necessario il carattere socializzante del lavoro. “All’interno del nostro carcere è stato istituito un Istituto Alberghiero dove studenti esterni entrano per venire a lezione e per diplomarsi mescolandosi ai nostri detenuti che, in possesso dei requisiti, hanno scelto di intraprendere una formazione professionalizzante che li agevoli nella reintegrazione in società una volta estinta la pena.

E’ il primo esempio in Italia. I corsisti sono già 30, 3 classi miste a cui a settembre se ne aggiungerà una quarta. Ma l’aspetto più sorprendente è che già alcuni di loro – in regola con le norme che consentono di lavorare esternamente e rientrare in cella la sera – lavorano in strutture cittadine. Il lavoro è un atto sociale e per questo ha bisogno di collaborazione da parte di tutti, l’apertura della città e degli abitanti di Volterra ne testimoniano perfettamente il senso”.
I banchi di prova intermedi, dalle sbarre a un ristorante, servono ai detenuti per ricostruirsi un’etica, per riabituarsi alle relazioni e per raddrizzare nuovamente la schiena. Non sarà forse un caso che la strada da solcare sia quella della cucina: dura, sfrontata, faticosa. Attraverso il cibo trasferiamo del resto la nostra identità.  Serve anche a questo il progetto “Cene Galeotte”, dieci anni di storia nel 2016 e all’attivo ben dieci mila ospiti accomodati e serviti grazie al supporto del Ministero della Giustizia, di Fisar Delegazione storica di Volterra – partner del progetto dal suo inizio, gestendo non soltanto la formazione professionale di settore per i detenuti ma anche il servizio a tavola durante le cene pubbliche – ma ancor più di Unicoop Firenze che ha in carico la retribuzione dei detenuti che partecipano attivamente alla realizzazione delle serate lavorando di giorno in cucina a supporto dello chef famoso di turno e poi di sera ai tavoli. Sono tutti aspiranti cuochi, camerieri e sommelier quelli che ti ritrovi davanti quando i cancelli del carcere si aprono per dare inizio alla serata. Se ne stanno tutti in fila mentre la gente entra con gli inarrestabili punti di domanda in fronte. Loro invece sguardo dritto, emozione in faccia, divisa nera, camicia bianca, gilet e papillon di rito.
Se li meritano tutti a fine serata quegli applausi e quella commozione nell’aria perché accettare di cambiare in meglio non è mai un controsenso e lavorare non è mai una scelta di cui pentirsi, a maggior ragione per loro. Non a caso le Cene Galeotte spaccano il carcere in due, tra chi sceglie di riconsegnare al lavoro e al sacrificio la dignità che meritano e chi invece  continua a preferire l’ombra in ogni sua espressione.
La guardia carceraria che di pomeriggio guida il giro di ronda sotto le celle sembra inizialmente distante, non molla il ruolo, sposta passi lenti e guardinghi per deformazione, parla solo dietro domande, il mazzo di chiavi custodito con cura. A fine giro è completamente diverso e racconta d’istinto: “Faccio questo lavoro da 35 anni, non potrei più farne a meno. Ho vissuto in tante realtà carcerarie ma questa è davvero un esempio di rieducazione e di rispetto. Il nostro lavoro diventa una seconda pelle anche quando siamo fuori di qui e se lo fai come si deve, con l’intuito e col cuore, riesci a dargli un senso anche in contesti impensati. Mi è successo più di una volta di uscire con mia moglie e riconoscere in qualche gesto o movenza di perfetti sconosciuti la condizione di persone ex detenute ora di nuovo a contatto con la libertà di situazioni normali. Non ti sbagli mai quando impari un codice di vita e la relazione che instauri con l’altro è la base di tutto, sempre. Molto spesso, nel lavoro, per riconoscersi e capirsi le parole non servono”.

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