Valutazione delle competenze: la verifica del limite

Interrogarsi sui limiti all’interno di contesti aziendali e organizzativi è impresa ardua innanzitutto perché ci si addentra in un territorio dai confini indefiniti e in costante variazione, dove una delle necessità primarie è quella di adottare strumenti rigorosi, la valutazione delle competenze che, se valorizzata, può diventare un’indispensabile bussola, specie quando il confronto con il cambiamento è […]

Interrogarsi sui limiti all’interno di contesti aziendali e organizzativi è impresa ardua innanzitutto perché ci si addentra in un territorio dai confini indefiniti e in costante variazione, dove una delle necessità primarie è quella di adottare strumenti rigorosi, la valutazione delle competenze che, se valorizzata, può diventare un’indispensabile bussola, specie quando il confronto con il cambiamento è tutt’uno con la quotidianità.

Oltre a garantire la necessaria oggettività, la valutazione delle competenze mette in luce ciò che una risorsa fa, l’X factor delle competenze morbide: può essere, quindi considerata non solo il luogo privilegiato per guardare ai limiti di essa o di un intero contesto ma anche come la base di partenza da cui partire per le scelte organizzative successive.

La valutazione delle competenze nella sfida della selezione

Se nelle Pubbliche Amministrazioni ci troviamo di fronte a un limite intrinseco, quello determinato dalle modalità di accesso – il concorso pubblico, utilizzato anche per i passaggi di carriera – sul versante delle imprese, l’assessment è sottoutilizzato dal momento che ad esso, nella maggior parte dei casi, non seguono azioni organizzative ulteriori.

“Si tratta di uno processo che richiede risorse non indifferenti dal punto di vista economico, di impegno e di competenze specifiche e il suo effettivo impiego dipende, soprattutto per le realtà di medie e piccole dimensioni, da Manager illuminati nella gestione del capitale umano e da risorse di budget dedicate; per questo – rileva Andrea Mazzeo, psicologo del lavoro, Fondatore e Amministratore di Elidea Psicologi Associati – l’Assessment viene già utilizzato in fase di selezione ma ancora poco in fase di sviluppo delle risorse umane. È una strategia vincente ma ancora poco sfruttata nella programmazione dello sviluppo delle persone nel medio lungo termine. E non sempre esistono in azienda le competenze necessarie a costruirlo e condurlo con la dovuta efficacia”

Se la valutazione delle competenze non viene ripetuta periodicamente e se ad essa non segue un’azione organizzativa, il rapporto costi/benefici di questo strumento diminuirà notevolmente, diverrà più difficile migliorare le competenze comportamentali della singola risorsa e affrontare eventi destabilizzanti della vita aziendale come, ad esempio, una fase di riorganizzazione. Se poi guardiamo più da vicino all’esito della selezione, è possibile riconoscere un’altra tendenza di fondo che non sempre paga.

“Le aziende di piccole e medie dimensioni – nota Debora Penco, psicologa del lavoro ed Expert Consultant presso Elidea – che per la loro tipologia di attività si trovano a selezionare figure come uno store manager, destinate ad avere un più stretto rapporto col cliente, preferiscono guardare a persone con competenze maggiori, già inserite stabilmente nel mondo del lavoro. Le aziende di grandi dimensioni, invece, soprattutto quando selezionano una figura che non ha grandi rapporti con l’esterno o che utilizza le nuove tecnologie preferiscono assumere un giovane; in quest’ultimo caso, però, spesso la selezione è fine a se stessa perché non viene concepito un piano di carriera ma si preferisce formare la nuova risorsa attraverso più stage ripetuti”.

Nella maggior parte dei casi, quindi, quel che manca è una visione di lungo periodo, una finalizzazione della valutazione delle competenze che, dopo aver fronteggiato l’urgenza delle selezione, dovrebbe essere valorizzata, inserendola in un più ampio processo o in un piano di sviluppo della singola risorsa.

Formazione: un potenziale ancora inespresso

Ciò sarebbe possibile se all’assessment center seguisse, con le differenze dei casi, la formazione, un piano di carriera oppure un sistema di job rotation, una leva ancora troppo sottovalutata dalle imprese italiane, come testimonia anche il XVI rapporto ISFOL sulla Formazione Continua in Italia. Presentato lo scorso maggio, nella sezione “Gli investimenti delle imprese” il documento dà conto di un’interessante inversione di tendenza: nel 2014 si assiste a una ripresa dell’investimento formativo delle imprese che passa dal 22,4% al 23,1% (mentre nei tre anni precedenti era sceso dal 35% al 22,4%). Le imprese che formano e che crescono sono soprattutto aziende di grandi dimensioni, collocate nel Nord-ovest (+2%) e nel Sud (+1%) del Paese.
Dopo anni di crisi anche le imprese italiane hanno iniziato, seppur in misura minima, a recepire una delle ricette europee per porre un argine a una crisi ormai di lungo corso: coinvolgere la forza lavoro in attività di formazione ha avuto infatti un tornaconto non trascurabile in altri stati UE, quello di una riduzione del PIL meno pronunciata.
Certo, anche se l’aumento delle attività di formazione nei prossimi anni potrebbe contrastare la recessione attuale, lo stesso rapporto rivela che le imprese investono in formazione soprattutto per aggiornare le mansioni già svolte (+2,4%) mentre minori risultano gli interventi formativi rivolti ai neoassunti o finalizzati alla creazione di nuove mansioni. Solo le aziende di medie e grandi dimensioni (più di 50 dipendenti) hanno davvero puntato sull’innovazione aumentando gradualmente le attività di formazione rivolta ai neoassunti o finalizzata allo svolgimento di nuove mansioni.

“La valutazione delle competenze, per essere davvero utile – spiega Andrea Mazzeo – dovrebbe essere considerata il punto di partenza di un processo organizzativo più ampio. Quando le imprese riescono a mettere in atto un sistema di gestione per obiettivi completo, possono fissare ogni anno delle mete da raggiungere; un manager competente può valutare costantemente, anche senza far ricorso a professionisti esterni, l’evoluzione di questo processo e decidere periodicamente i passi successivi: una formazione colmativa, nel caso in cui quegli obiettivi non siano stati raggiunti, ad esempio, un passaggio a una nuova mansione con l’assegnazione di obiettivi differenti o, ancora, una formazione migliorativa, nel caso in cui l’azienda si prefigga lo scopo di ottenere l’eccellenza da una risorsa che ha già espresso con efficacia le sue capacità”.

Risorse e performance nella PA

Anche se non è possibile intavolare un reale confronto tra il mondo delle imprese e la pubblica amministrazione, dal momento che un processo di selezione in ingresso che utilizzi l’assessment è, in questo secondo caso, inattuabile, la valutazione delle competenze potrebbe, anche in questo secondo caso, apportare indubbi vantaggi.
Le pubbliche amministrazioni, pur utilizzando la leva della formazione più frequentemente rispetto alle aziende, mettono in atto azioni formative nella maggior parte dei casi finanziate dalla Comunità Europea o da un’altra pubblica amministrazione e sono quindi soggette a linee di finanziamento che definiscono non solo l’intervento formativo da attuare ma anche i beneficiari della formazione stessa, la durata e i temi.

“Nella PA ci è capitato di realizzare un solo assessment in diciotto anni e ci troviamo di fronte a un utilizzo molto ingessato delle azioni formative. In alcuni casi la formazione non viene presa in considerazione per abitudini organizzative difficili da mettere in discussione, in altri casi, dove ci siamo trovati di fronte a dirigenti “illuminati” e consapevoli del valore della formazione, le azioni formative sono spesso utilizzate come unica leva organizzativa”.

Anche se le recenti riforme della Pubblica Amministrazione (“Brunetta” e “Madia”) hanno posto, almeno a livello programmatico, un accento sempre più marcato sul controllo e sulla valutazione della performance, sembra che nella PA ci si trovi nella maggior parte dei casi di fronte a un approccio che considera le sole procedure e che associa ai titoli accademici le competenze professionali in modo quasi automatico.

“Al di là dell’efficienza, anche nelle PA – spiega Debora Penco – nonostante una maggiore sensibilità per la formazione, c’è ancora uno scarso ricorso alla valutazione delle competenze e, più in generale, alla gestione per obiettivi. Ciò consentirebbe di capire cosa sanno davvero fare le risorse presenti, finalizzare l’assessment e tarare la formazione sui reali fabbisogni delle persone favorendo processi di riorganizzazione. Si pensi ad esempio alla riqualificazione dei dipendenti pubblici, destinati ad altre PA: casi che nei prossimi anni saranno sempre più frequenti. Anche il problema dell’invecchiamento anagrafico del personale è tale solo fino a un certo punto perché si vedono spesso settantenni ancora molto attivi: la gestione per obiettivi consentirebbe, anche qui, di riconoscere le risorse meno efficienti nell’accompagnare il cambiamento della cultura della PA”.

In definitiva, dunque, al di là delle differenze specifiche, sia la valutazione delle competenze che la formazione rimangono due strumenti ancora troppo poco praticati e ancora fini a se stessi, perché scollegati da un percorso più ampio e più efficace nel lungo periodo. La valutazione delle competenze è considerata economicamente troppo dispendiosa, troppo impegnativa in termini temporali ed economici, uno strumento scomodo perché richiederebbe di scalzare logiche di mantenimento dello status ancora troppo radicate, dove a ogni risorsa verrebbe richiesto di cedere parte delle proprie sicurezze o di rinunciare ad alcune delle sue abitudini. Al di là dei casi virtuosi e delle eccellenze, in molte pubbliche amministrazioni ma anche in molte grandi aziende, sembra mancare ancora una visione di lungo termine sui percorsi professionali dei singoli ma anche sullo sviluppo organizzativo.

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