Vendere ispirazione, comprare motivazione

Se Socrate, Seneca o il Gautama Buddha avessero lavorato in azienda dubito che sarebbero stati così convinti che si raccoglie quello che si semina. Viviamo in tempi strani in cui nulla è come sembra, e io ho stesso mi trovo in imbarazzo nel destreggiarmi tra etica e risultati. Tra morale e performance. Tra motivazione mia […]

Se Socrate, Seneca o il Gautama Buddha avessero lavorato in azienda dubito che sarebbero stati così convinti che si raccoglie quello che si semina.

Viviamo in tempi strani in cui nulla è come sembra, e io ho stesso mi trovo in imbarazzo nel destreggiarmi tra etica e risultati. Tra morale e performance. Tra motivazione mia e quella degli altri.

Vorrei scrivere di come qualcosa si sia incrinato negli ultimi anni nel vaso delle relazioni tra gli attori aziendali, e di come vi sia un primo passo fondamentale da intraprendere almeno per stuccarlo, questo vaso.

Lo sappiamo che la motivazione è la ragione delle azioni e ciò che spinge una persona a voler ripetere un comportamento. I pensieri influenzano i comportamenti, i comportamenti influenzano le prestazioni, le prestazioni condizionano i pensieri. Un ciclo che nel bene e nel male ci accompagna e che non appartiene a nessuno se non al proprietario dei pensieri.

Quando vengono da fuori, i pensieri dovrebbero passare un vaglio critico soggettivo: chi crede a tutto, chi non crede a nulla. Ma un individuo non è mai motivato da un altro individuo. Forse è ispirato, ma non motivato. L’ispirazione viene da fuori, la motivazione da dentro. La motivazione è una merce, magari sopita, ma già tua.

In un’epoca in cui tutto è commercializzabile questo fatto non poteva sfuggire alle leggi del marketing.

Ispirare da fuori, motivare da dentro

Ed ecco che la via è vendere “ispirazione” come fosse “motivazione”. Che è un po’ come vendere scarpe da corsa come fossero maratone già corse, o un profumo come fosse un appuntamento galante già fissato.

Chiarito questo aspetto deteriore del marketing applicato all’anima, la formazione motivazionale lavora sulle credenze interne per forgiare nuove abitudini. Ma cambiare abitudini, si sa, è faticoso, e non trova grandi consensi. Serve quindi una visione pregiudiziale che chiuda ogni ritrosia. Così si è saccheggiato il repertorio genitoriale, scolastico e religioso.

“Lo faccio per il tuo bene” è il messaggio evangelico di tanti formatori e motivatori, (ammesso che poi esista la figura del motivatore, che nemmeno il correttore di Word accetta come sostantivo. Provare per credere).

“Lo faccio per il tuo bene”. Questo refrain mi lascia sempre interdetto perché presenta una debolezza logica: come fai tu esattamente a sapere qual è il mio bene? Ecco la casistica:

1. Sei in buona fede, ma il mio bene è comunque una tua valutazione.

1.1.  Potresti farmi del bene davvero perché la tua valutazione è corretta.

Il tuo bene è un sottoprodotto del mio.

1.2. Potresti farmi del male perché sbagli valutazione.

Il tuo bene è comunque garantito.

2. Sei in mala fede. Il mio bene è solamente strumentale al tuo bene.

Mi farai sempre del male visto che il mio bene non è contemplato, mentre tu ti farai sempre del bene.

Questo è accaduto e accade ancora. Come si nota, la possibilità che tutto il circo costruito intorno alla formazione motivazionale sia gonfio di fuffa e di interessi particolari e personali è indubbiamente alta. Rimane che la formazione in tema motivazionale dovrebbe mirare a dare spunti, metodi ed energia per raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi essi siano. Ecco che allora “il tuo bene” è davvero “il tuo bene”.  Perché lo hai scelto tu.

Il “motivatore” in azienda

Ma in un ambiente aziendale, che chiede al motivatore di fungere da meccanismo attivatore per raggiungere obiettivi aziendali, che cosa succede?

Succede che l’attivazione deve essere diretta verso un obiettivo non necessariamente condiviso dall’operatore. A volte nemmeno compreso. A volte addirittura detestato. Qual è il bene di cui si parla, allora?

Un giorno, convocato da un HR manager, ero in un’azienda metalmeccanica veneta per trovare vie che stimolassero la risposta dei dipendenti – che apparivano demotivati e scontrosi – a dei grandi cambiamenti nell’assetto societario e organizzativo. Il concreto e spiccio titolare unico, che avevo conosciuto a una presentazione del mio libro, ma che non avevo collegato all’azienda e che non sapeva di questa iniziativa, mi vide negli uffici. In modo colloquiale e gentile mi volle incontrare subito dopo, da solo, senza la presenza del dirigente.

Mi chiese il perché della visita, e dopo la mia spiegazione, che riportava le esigenze delle risorse umane, mi rispose con una frase secca, di cui ometto il verace incipit per delicatezza. Frase che mi appuntai e che ancora oggi uso in molti speech, per sottolineare l’atmosfera di incomunicabilità spesso presente tra gli attori economici aziendali.

Ma pensa te”, mi disse. “Io a questi gli do già una occupazione e una paga e adesso devo pagare anche te per fargli venire voglia di lavorare”.

Potrei anche finire qui il post. Che cosa c’è in più da aggiungere? Ben poco, a prima vista. La motivazione dovrebbe esserci per contratto, intendeva il mio burbero interlocutore: se tu hai accettato di lavorare qui, il fatto che tu lavorerai è senza dubbio inteso. Non sbagliato in senso assoluto, soprattutto se la cornice lavorativa è sana, ben gestita e onesta, ma sappiamo tutti che spesso non è così. E, complici mille ostacoli psicologici e materiali con cui le persone si scontrano, la volontà di fare si sgretola e si riduce ai minimi termini.

Mi spiace, caro il mio burbero amico. La motivazione non è necessariamente parte del contratto. Capisco la delusione, anche perché se tutti fossero a contratto, come partite iva, potresti in un impeto anarchico di deresponsabilizzazione, disinteressarti sul serio della questione.

Quando conta la motivazione?

In effetti nessuno di noi si preoccupa della motivazione del pizzaiolo o del cameriere quando andiamo a cena: la diamo per scontata. Beh, nei contratti di lavoro a tempo indeterminato non lo puoi fare. Nel mondo dei lavoratori della conoscenza, che muovono centinaia di migliaia di euro con un clic, non è consigliato dare per scontato che la voglia di fare sia inclusa nel pacchetto.

Può non piacere a molti, ma non lo puoi fare perché il contratto prevede che la spartizione degli utili non sia proporzionale, e questo comporta che il “cosa fare” dovrebbe essere chiaro quanto più scendi nella scala gerarchica. Salario minore ma anche minori responsabilità e necessità di essere creativi.

La lunga catena interna di fornitura, la parcellizzazione e procedurizzazione dei compiti, assieme al valore sempre crescente che ogni operatore tratta, fanno sì che se una persona è demotivata può nascondersi tra le pieghe organizzative e creare danni a tutti. Anche a se stessa, sulla lunga distanza, senza sentirne il peso morale e materiale.

Nelle organizzazioni il “come” la gente fa il proprio lavoro non è così semplicemente delegabile alla gente stessa, perché la gente non ha, non può e spesso non vuole averne la responsabilità. Già, la motivazione è affare soprattutto di chi ha la visione dell’intero processo, e che per questo motivo guadagna più di chi sta sotto.

La triste comicità di chi si trova obbligato a partecipare a seminari motivazionali mi ha sempre fatto venire dei dubbi sulla sensatezza del mio mestiere, quando mancano i presupposti fondamentali. Nulla è più inutile del fornire significato a chi non vuole un altro significato, anche ammesso che il nuovo significato sia buono per lui o per lei.

Ho trovato molte persone sagge, tra i datori di lavoro o i responsabili che hanno compreso che la partita si gioca sul campo della realtà e non della dialettica, ma ho trovato anche molti ingenui e anche molti malandrini. Queste ultime due categorie, quando trovano un sedicente “motivatore” convinto di sé, creano una mistura che se non fosse così sventurata sarebbe anche divertente. Da un punto di vista concettuale puoi anche vincere la battaglia e fornire una nuova struttura mentale che sia più motivante e che porti a cooperare persone demotivate, ma la resa dei conti avviene sulla strada. Come nelle lezioni teoriche di difesa personale in palestra o su Youtube: poi sulla strada è differente.

Sulla strada trovi dirigenti più interessati ad avere l’ok dell’HR per i sedili in pelle della loro Audi A6 che al permesso di maternità per un loro sottoposto. Sulla strada trovi capi che ti dicono che loro non sono d’accordo con la strategia aziendale, ma in fin dei conti che cosa possono fare se non ubbidire. Sulla strada trovi responsabili che via telefono, il venerdì mattina, ti chiedono di fare gli straordinari il sabato, mentre si dirigono con la famiglia verso il mare per un weekend di relax. Sulla strada trovi che l’attacco frontale che ti hanno incaricato di guidare ieri è roba vecchia e decisa da qualcuno che oggi non c’è più e nessuno ti dice come spiegarlo a chi hai già mandato al massacro. Sulla strada trovi dipendenti che in orario di lavoro battono a pagamento le tesi di laurea, gestiscono i siti internet dietro compenso o organizzano aste su eBay.

Queste ordinarie e straordinarie anomalie rientrano nella antica categoria della doppiezza.

Il mio, tuo, nostro bene

E riflettiamo.

Questi avvenimenti distruggono il concetto de il tuo bene”. Squarciano il velo sul vero obiettivo di molte organizzazioni e individui. Obiettivo che non è quello del bene comune, ma solo quello della massimizzazione del profitto attraverso efficienza ed efficacia nella gestione delle risorse, tra cui quelle umane e aziendali; esplosioni sotterranee visibili sintomaticamente attraverso i comportamenti eruttivi e delusori di chi si trova a comandare, e anche di chi si trova sotto, in una situazione da dilemma del prigioniero in cui il meglio sarebbe cooperare, ma alla fine tutti tradiscono perché insicuri circa la buona fede del prossimo.

Il magma dell’ipocrisia liquefa tutta la motivazione del mondo, perché scioglie il significato del “fare il bene insieme”. Deve essere il contratto sociale che si è rotto in gran parte, vittima di quella trasparenza digitale e social che fa trapelare una generale trasandatezza per i temi della responsabilità sociale d’impresa.

Come aveva notato per tempo Vittorio Merloni, un imprenditore “olivettiano”: “Dobbiamo riconoscere che con questa Scuola, questo Stato e questa Fabbrica non saremo in grado di vincere la sfida degli anni Ottanta”. La scuola perché “ha continuato a ispirarsi a modelli che non solo danneggiano la vita economica delle imprese, ma anche i processi formativi dei giovani”. E poi lo Stato che “non fornisce quella organizzazione moderna dei servizi che né la fantasia, né la capacità innovativa degli imprenditori possono sostituire”. E in ultima la fabbrica, che deve essere “intelligente”, con lavoratori “sempre più professionalizzati e preparati che esigono modelli di lavoro, responsabilità e retribuzioni che tengano conto dell’impegno e della professionalità”.

Nulla di tutto ciò si è realizzato, mentre la competitività individuale è rimasta l’unico paradigma a cui aggrapparsi. La motivazione del team nelle organizzazioni ha bisogno di ideali più alti che non la pura sopravvivenza e il benessere del singolo. Chi vuole investire del tempo per formare e spingere le persone e il personale a comprendere perché fare quello che c’è da fare anche senza averne voglia, deve prima sistemare questo.

Il bene individuale è compreso nel bene comune e si nutre di comportamenti congruenti e puliti. L’incoerenza del sistema va eliminata come i sassi prima della semina, e in questo non esiste un Salvatore che sistemerà scuola, Stato e aziende.

Esisto io, intanto, e proprio perché mi arrogo lo status di “formatore” (e in questo caso il correttore di Word non mi dà sinonimi meno tristi), devo dirlo che “il mio bene” esiste solo se ritorna a essere compatibile con quello di tutti. E che nessuno si senta escluso.

“Nessuno si senta escluso

La Storia siamo noi…

E poi ti dicono tutti sono uguali

Tutti rubano alla stessa maniera

Ma è solo un modo per convincerti

A restare in casa quando viene la sera”.

 

Photo by Jamie Templeton via unsplash.com

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