Call center: le fabbriche delle voci, metafora del lavoro in Italia

Sono fastidiosi, quando vogliono vendere. Sono irritanti, quando non ci danno assistenza. I call center sono parte del nostro quotidiano. Per anni il simbolo dell’occupazione precaria, senza diritti, ma vissuto come un’eccezione. Oggi le condizioni di lavoro non sono cambiate. Con una differenza: le tutele decrescenti si sono diffuse a tutti i settori produttivi. A cavallo del […]

Sono fastidiosi, quando vogliono vendere. Sono irritanti, quando non ci danno assistenza. I call center sono parte del nostro quotidiano. Per anni il simbolo dell’occupazione precaria, senza diritti, ma vissuto come un’eccezione. Oggi le condizioni di lavoro non sono cambiate. Con una differenza: le tutele decrescenti si sono diffuse a tutti i settori produttivi.

A cavallo del millennio il lavoro nei call center divenne il simbolo del precariato, dello sfruttamento sussurrato, della crisi strutturale e sociale che poi sarebbe esplosa tra le mani degli italiani.
Assistenza, attività di marketing, gestione amministrativa: questi operatori assursero agli onori della cronaca mediatica. Televisione, rete e cinema rappresentarono storie, immancabili drammi. La vidimazione mainstream aveva francobollato il call center come il lavoro a rischio, quello fatto di prestazione e produttività, con tutele ridotte al minimo e bassi salari.
Da allora cosa è cambiato? Tanto o nulla. Il lavoro a scarse tutele è diventato la regola e quelle scosse sismiche, partite tra quegli operatori, hanno scolpito un nuovo assetto produttivo che, ora sì, ha vestito l’intera produzione made in Italy.

Dai call center al Jobs Act, un percorso di quasi vent’anni

Nel frattempo tra chi è occupato a rispondere ai clienti – gli “inbound” – oppure a vendere prodotti e servizi – gli “outbound” –, il panorama risulta ancora difficile, segmentato. Metafora perfetta di chi pretende di lavorare nel nostro paese.
La storia, con un percorso a ritroso, si può datare con l’inizio del 2015. Passato prossimo.
Entra in vigore il lavoro a tutele crescenti e prevede l’abolizione dei contratti a collaborazione a progetto, a partire dal 1° gennaio 2016. Con un’eccezione: sono salvaguardate le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi. Postilla necessaria e considerata un successo, almeno dall’associazione di categoria Assocontact che rappresenta i contact center in outsourcing.
Con queste regole è preservato l’accordo collettivo, siglato nell’agosto 2013, che ha previsto contratti di collaborazione a progetto per i lavoratori impiegati in attività in outbound.

Dunque il settore, che fattura 1,3 miliardi di euro all’anno (1,9 se si prendono in considerazione anche le attività svolte all’estero) e occupa circa 80mila lavoratori, è sottoposto a un duplice binario di regole.
Ai lavoratori inquadrati come inbound sono applicate le regole del Jobs Act, mentre per gli outbound vale il contratto a progetto siglato nel 2013.
Quadro normativo complesso, decisamente all’italiana e criticato dal segretario Sil Cgil, Michele Azzola, che ha accusato il governo di diplopia.
“Credo che il jobs act – ha affermato – non eliminando le collaborazioni a progetto e la legge di stabilità, con gli incentivi alle assunzioni, vada a creare danni irreparabili al settore dal punto di vista industriale”.
In effetti gli ingredienti per una ricetta socialmente esplosiva ci sono tutti: aspetti giuridici contorti, rapporti sindacali e politici tesi. Attori protagonisti sul palcoscenico di una crisi sia congiunturale sia strutturale.

I numeri delle fabbriche delle voci

Nel paese lavorano circa 80mila lavoratori nei call center. L’età media è bassa, circa circa 35 anni e sono in maggioranza donne. Gran parte delle imprese si trova al Sud: Palermo, Catania, Taranto e Reggio Calabria. Il fatturato si aggira attorno a 1,3 miliardi di euro. La regolamentazione al ribasso dei rapporti di lavoro non sembra sufficiente. Le aziende sono strette da una debole congiuntura economica, ma nelle fabbriche delle voci c’è dell’altro. Le opportunità offerte dalla delocalizzazione – che ha subito una forte accelerazione – e le scappatoie “licenzia e assumi” sono troppo ghiotte.
Nel cammino a ritroso nel tempo, prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, va segnata sul calendario la protesta di fine 2014.
Il fronte nemico è noto: delocalizzazione, gare al massimo ribasso, tradotti in stipendi ridotti all’osso, cambi di appalto e licenziamenti.
I lavoratori hanno usato, oltre allo sciopero, la via della Rete, realizzando un video, “L’assassino del call center”. Short film, dura circa tre minuti, dove un imprenditore decide di trasferire tutto all’estero, dismettendo un’intera fabbrica.
Trovata originale che generò numerose visualizzazioni e download.
A quanto pare, però, virtuale. Un po’ come tutte le grandi campagne sul web, quelle che si sviluppano nei confini – innocui – delle rivoluzioni in pantofole. O in mocassino.
Da allora grandi cambiamenti non sono giunti alle cronache, almeno quelli positivi. C’è stata l’epocale riforma del lavoro, con il rimessaggio dell’articolo 18. E sono continuate le delocalizzazioni.

L’accordo, siglato in questa primavera tra garante della privacy e il governo di Tirana, sul rispetto di un’adeguata sicurezza dei dati delle aziende che operano in territorio albanese, ha il sapore di una resa o quantomeno è il segnale di un processo in corso e inarrestabile.
Meno di un mese fa i lavoratori di 4U sono scesi in piazza a seguito della procedura di mobilità per 175 dipendenti su 370. La causa? Il trasferimento della commessa Sisal Matchpoint da Palermo a Tirana, dove il costo del lavoro è pari a circa un terzo rispetto a quello italiano.

Non si muore solo di delocalizzazione

Alla concorrenza oltre confine si è aggiunto il Jobs Act che ha scatenato una guerra anche dentro i confini nazionali. Sempre tra i poveri, ovviamente.
Le notizie arrivano, questa volta, dal profondo Nord e riguardano la Call&Call che avrebbe intenzione di licenziare 186 persone per aprire nuove sedi al Centro Sud, sfruttando le agevolazioni contributive previste dalla legge per le nuove assunzioni.
Un caso non insolito e a dire la verità non proprio delle “fabbriche delle voci” – simili operazioni stanno interessando altre organizzazioni – ma quei settori che operano ad appalto sono ad altissimo rischio di trasferimento di sede.

Secondo la Cgil, i call center sono i più colpiti da questo conflitto intergenerazionale e calcola in circa 7.000 le persone che potrebbero essere sostituite con altre meno costose grazie agli incentivi governativi.
Un quadro generale che tratteggia un disegno complesso, di difficile interpretazione. Alla questione della delocalizzazione, pure vidimata e bollata dalle autorità, si è risposto con una contrazione sensibile dei diritti e delle tutele. Il decreto sui contratti a progetto e la riforma del lavoro vanno esattamente in questa direzione. I “defensor” del libero mercato potrebbero affermare che è sempre meglio del “nero” o della fame. E forse hanno ragione se si dà per consolidato e intoccabile un mercato globale unicamente dedito al profitto, abbandonando ogni ipotesi di benessere sociale diffuso, obiettivo su cui si sono fondate gran parte delle costituzioni del secondo dopoguerra.
Le fabbriche delle voci, in questo senso, sono state il laboratorio perfetto di queste politiche. E lo sono ancora. Seguire le vicende del lavoratori coinvolti – di quelli che a volte ci fanno arrabbiare o disturbano nelle ore più insolite – non è un esercizio di stile o materia per sindacalisti. È la sfera di cristallo che indicherà come sarà il domani del lavoro in Italia.

 

 

 

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