Coronavirus, il giornalismo è debole. Dov’è finita la cronaca?

Loro sono i senza nome, firme anonime di personaggi anonimi, di cui non si parla mai. “Io sono una sigla”, ci dirà con ironia una giornalista dell’ANSA che fa questo mestiere da anni. In effetti è così. Non compaiono quasi mai nei talk show, non si sa che faccia hanno, non si sa che storia […]

Loro sono i senza nome, firme anonime di personaggi anonimi, di cui non si parla mai. “Io sono una sigla”, ci dirà con ironia una giornalista dell’ANSA che fa questo mestiere da anni. In effetti è così. Non compaiono quasi mai nei talk show, non si sa che faccia hanno, non si sa che storia hanno; eppure sono tantissimi, sparsi in tutto il mondo, in tutti i meandri della società civile e politica. Soprattutto sono la fonte primaria di tutta l’informazione, sia essa in rete, via satellite o su carta stampata. Si nutrono di notizie di ogni genere, giornali, tv, rete internet, uffici stampa, imprese grandi e piccole, istituzioni politiche. Oggi Twitter e Facebook sostituiscono in parte i take d’agenzia; la differenza è che la gran parte delle notizie d’agenzia non sono sotto forma di messaggi politici, ma raccontano ciò che avviene nel territorio. Chi volesse fare il gioco di spulciare i giornali e i periodici si accorgerebbe che una quantità enorme di notizie, firmate da sigle misteriose, sono prese direttamente dalle agenzie.

Insieme agli inviati tv, i cronisti d’agenzia sono gli unici che stanno dalla mattina alla sera sul campo di battaglia. Sono gli unici che vedono le cose in carne e ossa e non attraverso un video. Una volta per i giornalisti di agenzia la gavetta consisteva nel “giro della nera” in tribunale e in questura alla caccia di notizia “scabrose”, e nel “giro della bianca” negli ospedali. Da quando il coronavirus ha invaso il pianeta tutto è cambiato: l’unico giro infinito è quello per verificare negli ospedali la situazione degli infettati e degli intubati, nei cimiteri il numero dei morti e nei comuni l’allarme dei sindaci.

Gli invisibili, come peraltro gli inviati delle tv, sono i più esposti, dovendo garantire come inviati di guerra un’informazione minuziosa e dettagliata: le notizie provenienti dal fronte della guerra al coronavirus. In Italia alcune agenzie minori hanno adottato lo smart working, diventando di fatto fonte secondaria di informazione, ma l’agenzia ANSA e altre, come ad esempio l’Adnkronos, hanno preferito non abbandonare il territorio. L’unica differenza oggi è che le redazioni centrali sono semivuote. Il cronista detta direttamente le notizie dal luogo in cui si trova, lasciandone la selezione e la priorità ai capi dei desk.

 

Francesca Brunati, cronista ANSA: “Il coronavirus ha cambiato tutto, anche nel nostro mestiere”

Francesca Brunati, giornalista ANSA da decenni, cronista giudiziaria per molti anni a Tangentopoli, oggi è diventata, come molti suoi colleghi invisibili, uno dei “soldati” delle agenzie nei luoghi del coronavirus. Proviamo a vedere con i suoi occhi cosa è cambiato nell’emergenza COVID-19 e come è cambiato il mestiere del cronista.

È cambiato tutto. Credimi, non è un modo di dire. Mi pare che anche tu lo abbia fatto questo mestiere. Ti saresti mai immaginato, prima di uscire di casa, di controllare se nella tua borsa c’era del gel, una mascherina e dei guanti, e la sera di ritornare in famiglia con il timore di essere un untore? Non credo, quella era roba da infermieri e da medici, neppure l’immaginazione più fervida avrebbe pensato una cosa del genere. Anche nei gesti tutto è cambiato. Ti confesso che all’inizio, quando arrivavo nelle zone ‘proibite’, mi dimenticavo di restare a distanza di sicurezza mentre prendevo appunti per un’intervista. Quando è iniziata questa brutta storia ho intervistato il prefetto di Lodi, poi risultato positivo, e mi sono resa conto che forse avrei potuto anch’io essere colpita dal virus. Per fortuna non è accaduto, ma da quel momento ho capito che una distrazione può essere fatale per te e per molte altre persone”.

 

Molti tuoi colleghi anche delle agenzie di stampa lavorano da casa con lo smart working. Non li invidi?

No. Capisco la necessità per le imprese di lavorare da casa per rispettare le distanze di sicurezza, ma se anche noi abbandonassimo il territorio le informazioni si ridurrebbero a quello che vediamo in televisione o a quello che si legge in rete. Per l’amor di Dio, le tv fanno un grande lavoro, ma se anche le agenzie lavorassero soltanto in smart working morirebbe almeno in parte la presa diretta, la possibilità di raccontare quasi in tempo reale quello che avviene in un piccolo paese o in una famiglia dove non sempre la tv arriva. Si allontanerebbe ancora di più la distanza tra l’informazione e il mondo reale. Ma soprattutto morirebbero la possibilità di guardare da vicino le persone, le loro richieste di aiuto alle autorità, il racconto dello stato d’animo di un paese stremato dal virus e dalla crisi economica. La presenza fisica è vitale per un’informazione non episodica e asettica. Se non vedi le cose non puoi informare, non puoi capire il divario che spesso c’è tra le condizioni reali della gente e le analisi politiche che si fanno a Roma. Questo il motivo per cui ho scelto di lavorare in agenzia. Vuoi un esempio? Quando è iniziato questo inferno sono stata mandata a Casalpusterlengo, una delle prime zone rosse colpite dal coronavirus. Nei tg e nelle dichiarazioni ufficiali si diceva che era soltanto un’influenza, in molti a Roma e ai vertici delle regioni hanno sottovalutato il pericolo di epidemia. Lo sanno tutti. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Poi sono arrivata in quel paese, ho girato un po’ per le strade deserte molto prima dei divieti, ho parlato con la gente e ho capito che qualcosa di terribile stava accadendo. Dei riti di paese, come le chiacchiere al bar o i baci per strada di una coppia, nessuna traccia. Certo, gli abitanti di quel paese erano ancora increduli, ma avevano già percepito il pericolo e qualcuno si sentiva anche abbandonato.

E la gente come vi accoglieva? Non c’era la consueta diffidenza nei confronti dei giornalisti?

Anche io lo temevo, ma a me è capitata una cosa strana quando incontravo ogni giorno la gente di Cremona e di Crema. Ho avuto da subito la sensazione che gli abitanti avessero voglia di parlarci, di raccontare la loro tragedia senza remore. Alcuni mi chiamavano, mi davano notizie che mi erano sfuggite. Spesso incontravo le brigate di strada, giovani volontari che si occupavano di fare la spesa per le persone anziane. Per alcuni di loro siamo diventati un punto di riferimento, una specie di tramite tra loro, il governo e le istituzioni locali; forse perché si sentivano isolati dal resto del mondo. Qualcuno infatti ci chiedeva l’elenco delle persone in ospedale perché non aveva più notizie di un suo parente.

Hai incontrato anche imprenditori?

Sì, li ho incontrati nell’area del bergamasco, dove come tu sai il lavoro è il pilastro vivente di quel territorio. Una situazione terribile, fabbriche ferme, magazzini vicini allo smaltimento totale delle merci, prospettive nerissime per i lavoratori. Che vuoi che ti dica: nei nostri take, nostro malgrado, abbiamo raccontato queste brutte storie. D’altronde come facevi a raccontarle se non eri lì giorno e notte? Io penso che il nostro mestiere abbia un senso se è capace di raccontare quello che succede attorno a noi.

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