Editoriale 115. Infortuni mentali

Ciò che teniamo in borsa, o che nascondiamo nei cassetti dell’ufficio, dice chi siamo ma anche come stiamo. Ne ho avuto conferma alcuni anni fa, quando la mia collega di stanza ebbe un brutto attacco di panico dopo aver sbattuto furiosamente il telefono contro un responsabile che sedeva al di là della parete. Un crollo […]

Ciò che teniamo in borsa, o che nascondiamo nei cassetti dell’ufficio, dice chi siamo ma anche come stiamo. Ne ho avuto conferma alcuni anni fa, quando la mia collega di stanza ebbe un brutto attacco di panico dopo aver sbattuto furiosamente il telefono contro un responsabile che sedeva al di là della parete. Un crollo psicofisico scatenato da ruggini professionali mai portate a galla: un attacco di panico da vera letteratura medica, non un attacco d’ansia; ce lo confermò lei stessa, più tardi, di soffrirne da più di un anno e che era seguita da uno psichiatra con cui faceva terapia di gruppo. “Gli ripeto spesso che odio venire al lavoro per come veniamo trattati”, aggiunse.

La scena madre fu lei che iniziò a sudare, la tachicardia in aumento, diceva di sentirsi svenire, morire, di stare male come se l’ufficio le si stringesse addosso, ci afferrava le mani; finché ci ritrovammo in cinque, da due che eravamo. Chi era entrato con lo Xanax in mano (uno ce l’aveva in gocce, l’altra in compresse), chi coi Fiori di Bach, chi addirittura con una boccetta di Lexotan; una collega si fece largo persino con un misuratore della pressione tascabile. Luoghi di lavoro che somigliano a cassette del pronto soccorso ma che nessuno sospetta finché non scoppia la rissa dei dolori individuali. 

L’altro fattore che non dimentico è che a tirare fuori i propri rimedi furono uomini e donne, colleghi giovanissimi e un quasi pensionato; uno dei nostri capi ci stupì, uscendo dall’ufficio per allungare un conforto e farsi normale per un giorno. Una sedia in mezzo alla stanza, una donna in preda a un dolore mentale e cinque persone solo apparentemente più sane di lei: eccolo, il mio ricordo.

Stiamo male.

La relazione di giugno scorso del Parlamento europeo – redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali – non ci ha girato intorno nemmeno con le virgole: la prossima crisi sanitaria, e mondiale, sarà legata alla perdita di salute mentale nel mondo del lavoro

La relazione si chiude con un invito alla Commissione europea e agli Stati membri che ha più le sembianze di un obbligo, anche se è scritta con le forme di uno stimolo: serve adottare al più presto piani di prevenzione, il senso è chiaro. Un po’ tremo, allora, se il senso è questo, perché ripenso alla vigliaccheria con cui la nostra politica ha finto di aggiornare un piano pandemico in vista di future crisi sanitarie (date per certe, in quanto cicliche), mentre nel frattempo ci chiudeva in casa per mesi dicendo di proteggerci.

A distanza di quasi tre anni dovremmo dircele a voce alta, certe verità.

Il Parlamento europeo, nella sua relazione, non trascura affatto il nucleo del problema: la salute mentale non è mai stata considerata all’altezza di quella fisica

Nemmeno l’OMS si tira indietro e, a fine 2021, ha snocciolato l’allarme su più piani. Più di 300 milioni di persone soffrono di disturbi mentali per colpa del lavoro: li chiama espressamente esaurimento, ansia, depressione, stress post-traumatico. Stringe il campo sull’Europa per segnalare che un lavoratore su quattro è convinto che la propria salute mentale risenta negativamente del lavoro. Affonda, infine, sui costi in progressivo aumento negli ultimi dieci anni a livello di PIL nazionali per rispondere alle conseguenze delle patologie mentali. 

Ma perché stiamo male quando lavoriamo? 

Provo a fare un elenco senza vincitori, complice l’onda lunga della pandemia.

Vita professionale e privata che si sono messe di colpo a convivere in casa, e non eravamo pronti.

Insofferenza nel sentirsi costretti a gestire il lavoro come un tempo da occupare più che come un senso da riempire. Cultura del lavoro ancora adolescenziale che vive di poteri, forme di controllo, assenza di relazioni, ignoranze emotive. Salari che non bilanciano lo sforzo e il sacrificio. Scarso interessamento alla persona. Muri di gomma contro il diritto alla disconnessione. Bullismi, mobbing, violenze psicologiche sottili, abusi, indifferenze, sessismi. Fragili politiche del lavoro per i giovani. Riunioni ingoiate una dietro l’altra senza il sapore delle caramelle. Attenzione zero all’emergenza della salute mentale nei percorsi formativi obbligatori o volontari: la salute, per le aziende, è un infortunio fisico oppure non vale, è una gamba che salta, è tagli o ferite più o meno gravi, è uno star male che si possa certificare con l’ipocrisia degli occhi e delle mani, altrimenti non conta. Dipendenza da algoritmi padroni che non hanno un colore, una faccia, un odore, eppure ci comandano a bacchetta. Solitudini e silenzi dei manager, dei capi, dei presidenti. Stanchezza mentale dilagante per carenza di desideri. Occasioni nulle di ascolto e di confronto reciproco dentro le organizzazioni aziendali. Progressioni di crescita e di carriera blindate. Ristagni. 

Se continuiamo a evitare che alcuni sentimenti nobili entrino nei luoghi di lavoro perché inadeguati o inopportuni al contesto, non aspettiamoci di migliorare. Non faremo altro che mettere a covare i problemi sotto le scrivanie; una volta erano i tappeti.

Oggi, mentre aspettavo di essere ammessa a una riunione online, è partita a video la configurazione dell’app: installazione, configurazione, verifica audio e video, fin qui tutto ordinario. Finché non ho visto passare anche la scritta preparazione delle sedie. Ho tentennato un istante con me stessa. Mi sono toccata le mani, ero presente, ero sola, ne ero sicura. Non c’era nessuna sala riunioni, nessun collega, nessuno che stesse allestendo le sedie, ero solo in attesa di collegarmi da remoto con persone che avrei visto dai capelli al mezzo busto se l’inquadratura fosse andata bene. Eppure, dall’altra parte dello schermo, un’app stava cercando di portarmi nella sua finzione.

Stiamo male, ma stiamo anche vigili.

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Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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