Guerra in Yemen, stipendi in macerie: statali non pagati da otto mesi

Lo scenario yemenita dopo otto anni di conflitto vede estendersi la soglia di povertà a due terzi della popolazione: coinvolte anche le fasce benestanti e i dipendenti statali (a esclusione di governativi e militari). E i sindacati si rivolgono alle Nazioni Unite.

Fadel Abker ha nove anni e un lavoro. Sede: il semaforo tra shara Jama e shara Mustashfa, ossia lo stradone tra l’università statale e l’ospedale al-Thaura a Sana’a, Yemen. Il padre Abdel ne riferisce orgoglioso, nel povero appartamento in affitto roso dall’umidità della stagione delle piogge dove vive la famiglia: 70 metri quadri di mattoni crudi al primo piano di una costruzione ancora in fieri, alla periferia della capitale del Nord dello Yemen, non molto distante dall’improvvisato campo con tende dell’UNHCR dove Abdel, la moglie e i figli hanno vissuto per sei mesi nel 2017, appena sfollati dalla città di mare di Hodeida.

Il campo era malsano”, continua Abdel. “A partire dalla posizione, di fronte la discarica della città, per non parlare del fatto che dentro c’era poca acqua e le latrine puzzavano a cielo aperto. Molti hanno preso il colera lì, quell’anno. Mi son detto che così non si poteva continuare. E allora ho preso Fadel e siamo andati insieme a vendere spazzolini da denti come ambulanti. A lui ho lasciato i semafori migliori, quelli intorno all’università. Sono soddisfatto di mio figlio”.

Lo spazzolino da denti si chiama miswak ed è una radice naturale con cui gli yemeniti si sfregano denti e gengive: costa dieci Yemeni Rial, pari a cinquanta centesimi di euro. Fadel ne tiene un fascetto in mano e uno più grande sulla spalla: potrebbe essere stato un piccolo spaventapasseri, se i suoi occhi grandi, neri, puntuti, non tradissero un’intelligenza mobile, tutta umana, che si meriterebbe di tenere in mano la penna, al posto dello spazzolino. Ma nello Yemen in guerra da otto anni non si può andare troppo per il sottile.

Fadel Abker ha nove anni e lavora al semaforo tra shara Jama e shara Mustashfa,
ossia lo stradone tra l’università statale e l’ospedale al-Thaura a Sana’a, nello Yemen

La madre di Fadel, Aisha, se ne rende conto e lo dice sottovoce: “È una necessità. O paghiamo l’affitto per vivere almeno decentemente tutti insieme o Fadel va a scuola. Ma intanto è il maggiore di quattro fratelli e le due sorelle più grandi, che hanno già studiato, per ora le teniamo a casa: finché possiamo non le daremo in sposa a chi ce le chiede. Per noi sono ancora bambine”.

Le ragazze ci sorridono da sotto il niqab: hanno sedici e quattordici anni e su questo mamma Aisha è irremovibile, contro ogni necessità e statistica. In Yemen la vita dei bambini non vale niente e dagli 8-10 anni di età sono già tutti piccoli uomini e donne, con la responsabilità del mantenimento dei famigliari (per lo più fratelli e sorelle minori). Secondo UNICEF e World Bank, già dal 2017 più del 10% dei bambini tra i 5 e i 14 anni in Yemen viene impiegato in vari lavori: domestici, agricoli e industriali, senza contare l’uso dei bambini soldato in battaglia, forze “fresche” alla causa, da addestrare in appositi campi estivi. Quantomeno a Fadel è risparmiato imbracciare il fucile, dalla sua famiglia: lavorare ogni giorno sotto la pioggia battente appare il male minore per lui, nonostante tutto.

Yemen, con la guerra due terzi della popolazione sotto la soglia della povertà. Benestanti compresi

Perché Fadel ha un lavoro in un Paese dove anche gli adulti vivono – secondo il WTO si tratta del 70% della popolazione, ormai – sotto la soglia della povertà. Prima della guerra la percentuale si aggirava intorno al 54,5%. Dopo la guerra, il tracollo economico, l’inflazione, la dipendenza dall’esterno e la mancata erogazione degli stipendi agli statali, a causa dello spostamento della banca centrale da Sana’a a Aden, hanno trascinato più della metà della popolazione verso un’esistenza drammatica. È capitato a tutti, anche ai più benestanti: agli imprenditori e agli uomini di cultura.

Come l’autore e editore Hassan Abdel Warith che, dopo mesi senza stipendio, è stato costretto a mettere in vendita la sua biblioteca di 5.000 libri per sfamare la sua famiglia. Ed è uno dei fortunati: Abdel Warith, caporedattore del quotidiano Al Wahda, di proprietà del governo, è tra gli 1,25 milioni di dipendenti statali dello Yemen che non sono stati pagati per più di otto mesi. Come lui non lo sono stati medici, infermieri, insegnanti, militari, amministrativi; chiunque dipendesse dalle istituzioni pubbliche. Per questo migliaia di lavoratori hanno organizzato in questi anni di conflitto scioperi e sit-in, ai quali non sono seguiti netti miglioramenti.

“Il ritardo salariale ha esacerbato la nostra sofferenza, poiché le persone a basso reddito ora affrontano problemi quotidiani con i proprietari terrieri e i negozianti di alimentari”, afferma Mana’a Shaddad, un impiegato del governo. La guerra in Yemen tra il governo del presidente Abdo Rabbu Mansour Hadi (oggi sostituito da un comitato di otto reggenti-ministri), sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli altri Stati della Lega Araba, e i ribelli Houthi, sostenuti dal presidente deposto Ali Abdullah Saleh e dall’Iran, è iniziata nel marzo 2015. Più di 15.000 civili sono morti e più di 36.000 persone sono rimaste ferite nei combattimenti. Senza contare una crisi umanitaria stabile a causa della distruzione di ospedali, scuole, ponti e attività commerciali come conseguenza di attacchi aerei, artiglieria, droni.

Gli statali yemeniti senza stipendio da otto mesi

La guerra ha tagliato le entrate petrolifere, doganali e fiscali, mettendo la finanza pubblica e il settore governativo – già cronicamente a corto di risorse – al collasso. Il governo ha cercato di mantenere in funzione la banca nazionale, dopo averla spostata dalla capitale Sana’a, controllata dagli Houthi, alla città costiera di Aden, dove ha attualmente sede il governo. Tuttavia l’economia del Paese è ferma, e l’inflazione dilaga dopo l’ultima decisione dell’ex governo Hadi di stampare ulteriore valuta (quattrocento miliardi di rial, pari a circa 1,5 miliardi di euro) che ha poi portato a una necessaria iniezione di nuovi fondi, prestati dall’Arabia Saudita.

“Tutte le istituzioni statali sono disabilitate a causa del ritardo nel pagamento degli stipendi”, dice un funzionario del ministero dell’Economia, che accetta di parlarne in anonimato. “Ci sono state proteste nel Sud e rabbia diffusa nella maggior parte degli enti governativi. Anche quei dipendenti che temono gli Houthi al Nord e non protestano stanno nelle loro case in attesa di notizie reali sugli stipendi”.

A causa degli stipendi non pagati, non solo lo Yemen ha visto un numero senza precedenti di mendicanti per le strade, ma la crisi ha anche contribuito ad aggravare la carenza di cibo, con l’aumento della carestia sulla costa occidentale e 14,14 milioni di persone in tutto il Paese che soffrono dall’insicurezza alimentare. “È un peccato che gli stipendi dei dipendenti del governo si trasformino in un argomento di conflitto politico”, afferma Abdel Qawy Hussein, un dipendente del ministero dell’Acqua e dell’Ambiente. “Che cosa hanno fatto di male centinaia di migliaia di dipendenti per ritrovarsi improvvisamente senza reddito?”

Dal lavoro di questi impiegati (insegnanti e medici) dipendono 6,9 milioni di persone, quasi la metà dei quali bambini. Secondo la Banca centrale dello Yemen, lo stipendio e gli stipendi totali del governo ammontano a 75 miliardi di rial mensili (300 milioni di euro), di cui 25 miliardi (100 milioni di euro) vanno al personale militare. Dall’inizio del 2015 la guerra ha anche privato circa 1,5 milioni di poveri di sussidi in denaro dal fondo di assistenza sociale, di cui il 63% già soffre d’insicurezza alimentare, secondo i dati ufficiali. Il costo totale di questi sussidi in contanti è stimato in circa 22,7 miliardi di rial (90 milioni di euro) ogni tre mesi.

Le proteste dei sindacati e l’appello alle Nazioni Unite

“La crisi di liquidità ha portato alla sospensione non solo degli stipendi dei dipendenti statali, ma anche delle spese del bilancio statale in generale, comportando notevoli rischi per gli indicatori economici, sociali e umanitari”, secondo Sarah Abdullah, dipendente del ministero della Pianificazione yemenita. Anche per questo i sindacati chiedono un ruolo maggiore sia nel processo di pace che nel dialogo sociale, e hanno organizzato scioperi a Sana’a e Aden per protestare contro la sospensione degli stipendi. Il capo della Federazione generale dei sindacati dello Yemen, Ali Belkhadr, ha invitato le Nazioni Unite e le organizzazioni finanziarie internazionali a fare pressione sulle parti in guerra per concordare un meccanismo per pagare gli stipendi.

Solo nella General Electricity Corporation circa 24.000 dipendenti sono ancora pagati, a cui si aggiungono 100.000 rimasti senza stipendio per più di cinque mesi. Le loro proteste sono state represse sia dal governo centrale a Sud che dagli Houthi a Nord. Così si spiega perché, più volte, alla fine dell’anno scorso, il sindacato dei lavoratori elettrici di Aden abbia minacciato di scollegare l’alimentazione da tutti i centri di servizio se le richieste degli operai non fossero state soddisfatte.

La tregua attualmente in corso dovrebbe portare a una momentanea soddisfazione di queste richieste. Ma cosa potrebbe essere, se non una goccia nel mare, un mese di stipendio pagato contro otto anni di guerra già vissuta a cui si aggiungono altri potenziali, indefiniti mesi di una crisi di cui non si intravede la fine?

Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.


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