Il Ministero della Salute non sa niente delle strutture per anziani: non esistono solo RSA

Tutto ciò che non funziona dal punto di vista sanitario nelle strutture dedicate agli anziani: carenza di personale medico e di protocolli, ma non solo.

Sono i medici di famiglia a prestare assistenza nelle strutture per anziani, rimaste travolte dallo tsunami COVID-19, che ancora continua a colpire senza tregua. Medici e strutture totalmente impreparati, come il resto del sistema sanitario nazionale, ad affrontare la pandemia che raggiunge un tasso di deceduti pari al 40% nella classe di età tra gli 80 e gli 89 anni, con un tasso di letalità del 32%: un morto ogni tre.

Case di riposo, le norme anti-COVID impediscono ai medici di visitare i pazienti

A descrivere limiti e criticità dell’assistenza prestata agli anziani ospiti è Franco Pesaresi, direttore dell’azienda servizi alla persona “Ambito 9” di Jesi (Ancona), che ha approfondito il tema con numerosi studi e pubblicazioni a partire dai dati.

Spiega Pesaresi: “In Italia vi sono almeno quattro tipologie di strutture, e purtroppo il medico è previsto solo nelle residenze sanitarie assistenziali; in altre tipologie di strutture non è previsto dalla normativa e l’assistenza agli ospiti è affidata ai medici di medicina generale. È questo il primo dato di cui tenere conto. Purtroppo il Ministero della Salute non ha una grande conoscenza di tale settore, è consapevole solo della situazione nelle RSA, non del resto delle strutture per anziani. Questo ha comportato che il ministero abbia dato disposizioni considerando le strutture tutte uguali. Ad esempio nelle Marche, su settemila posti letto nelle strutture per anziani, i posti letto di RSA sono minoritari, circa un migliaio. Lo stesso accade nel resto d’Italia”.

Oltre al fatto che la legge non prevede la presenza di una figura medica in alcune tipologie di struttura, una norma varata in piena emergenza non ha consentito nemmeno ai medici di medicina generale di visitare i loro pazienti in struttura, continua il direttore: “In una situazione di questo tipo, come la pandemia, occorre avere a disposizione un medico in struttura, che è indispensabile. In base a una curiosa norma statale, durante il periodo dell’emergenza COVID-19 i medici di medicina generale non sono andati a trovare i pazienti positivi al virus, perché la legge ha stabilito ci dovessero andare le USCA (Unità Sanitarie di Continuità Assistenziale), composte da medici non strutturati, guardie mediche e personale non specializzato”.

“Per tutta la prima fase dell’emergenza non è stata presente ovunque un’assistenza medica, nelle strutture residenziali per anziani. In questa seconda fase non ci sono dati disponibili, non c’è una presenza costante, le USCA vanno comunque a fare delle visite periodiche. In conclusione, quando ci sono problemi di questo tipo, è essenziale che ci sia una presenza medica, perché occorre coordinare gli interventi e vigilare sulle precauzioni prese, garantendo le cure necessarie agli anziani ospiti. Solo una regione, il Veneto, qualche settimana fa ha stabilito in questa fase di inserire nelle strutture residenziali un medico che gestisca la situazione di emergenza sanitaria COVID-19, con le spese pagate dalla regione stessa. Le ore di assistenza garantite sono rapportate al numero di ospiti presenti.”

Nelle strutture per anziani mortalità da COVID-19 dieci volte superiore

In Italia al momento l’unico studio ufficiale sulle morti nelle strutture per anziani è quello dell’Istituto Superiore di Sanità, i cui dati sono stati analizzati da Pesaresi. In media sono morti tra il 2,9 ed il 3,8% degli ospiti all’interno delle strutture residenziali, con una mortalità dieci volte più elevata all’interno delle strutture rispetto allo 0,2% degli ultrasettantenni.

Pesaresi spiega come assistenza sanitaria e cure di lungo termine spesso scorrono su binari paralleli che non sempre si incontrano: “Questa tragica esperienza, a cui nessuno di noi era preparato, ci evidenzia che in Italia esistono due mondi tuttora separati, che non possono più rimanere tali: la sanità tradizionale per acuti e gli ambulatori gestiti dall’ASUR (Azienda Sanitaria Unica Regionale), e le cosiddette cure di lunga durata affidate a una pluralità di soggetti in strutture differenti, in parte pubbliche e private, che sono state tante piccole isole non coordinate tra loro”.

“Nel caso delle ASP (Aziende di Servizi alla Persona), sono entrate in difficoltà anche strutture residenziali con cinquanta-sessanta dipendenti che però hanno solo due amministrativi, mentre nel servizio sanitario nazionale ci sono decine di persone che in un ambito territoriale si occupano di igiene e sicurezza. Se fossero supportate con leggi che permettessero loro di fare assunzioni, potrebbero agire, oppure si potrebbe mandare loro a supporto il personale della sanità, a sopperire in momenti di emergenza”.

“Dopo la pandemia, la sanità pubblica prenda in mano le cure a lungo termine”

La road map delle cose da fare prevede diversi punti, aggiunge il direttore dell’ASP di Jesi: “L’esperienza della pandemia suggerisce che i due mondi della sanità pubblica e delle cure di lungo termine non possono più rimanere separati. La sanità deve coordinare le cure di lungo termine, che non possono essere gestite solo tramite convenzione. Una casa di riposo piccola non ha le risorse al suo interno per far fronte a una eventuale emergenza, e in situazioni critiche, ove possibile, può dare supporto il servizio sanitario nazionale”.

“In secondo luogo, l’emergenza che stiamo vivendo suggerisce di riorganizzare le strutture, per evitare che certe cose, con la pandemia ancora in atto, possano accadere di nuovo. La riorganizzazione prevede, oltre all’attuazione delle idonee precauzioni, di predisporre in ogni struttura una zona di isolamento, da usare nei casi sospetti, ad esempio quando qualche anziano ospite, dopo essere stato ricoverato in ospedale o in pronto soccorso, rientra in struttura. Andrebbe predisposta una zona con stanze contenenti un solo letto, in cui osservare precauzioni importanti dal punto di vista igienico. Ad esempio, in casi di febbre e di sintomi sospetti, l’anziano può essere posto in quarantena per quindici giorni, per evitare che in presenza di COVID la pandemia si diffonda ulteriormente.”

“Chi entra in struttura come nuovo ospite dovrebbe fare due settimane in quarantena, nella zona protetta, evitando così di infettare altri ospiti. Anche per un anziano che viene portato in ospedale, che è un luogo rischioso per i contagi, va seguita questa procedura quando rientra. L’area di isolamento va realizzata in tutte le strutture. Queste sono le indicazioni pratiche che ci lascia per il futuro la pandemia, utili anche per gestire infezioni e virus meno impegnativi.”

Case per anziani nell’emergenza: servono formazione e una normativa più flessibile

L’emergenza sanitaria ancora in atto impone di non abbassare la guardia, anche se in Italia la situazione è stata leggermente migliore rispetto ad altri Paesi europei. Si deve curare la formazione del personale, raccomanda Pesaresi.

“Altro aspetto fondamentale, come avviene nel servizio sanitario nazionale, è la formazione del personale. Nelle strutture per anziani non sempre c’è grande attenzione alla formazione, va garantito e verificato che la faccia tutto il personale, con aggiornamenti formativi. Adesso la priorità è fronteggiare il virus, il personale va adeguatamente formato e aggiornato: questo aspetto è decisivo affinché il sistema possa garantire sicurezza. Una situazione straordinaria come questa richiede una risposta straordinaria, adeguata al problema.”

“Teniamo conto che quanto accaduto nelle case di riposo è molto più drammatico nel complesso: la percentuale dei morti nelle strutture residenziali è in media la metà dei deceduti nei Paesi europei, come ad esempio il 51% in Francia, in Spagna circa il 67%. In Italia siamo a una percentuale di circa il 31%. Va data maggiore attenzione alle strutture residenziali per anziani, riorganizzando le cure a lungo termine e i servizi, predisponendo idonee scorte di dispositivi di protezione individuale. Risulta decisiva la formazione del personale, le strutture sia sanitarie che residenziali sono state travolte, nessuno era preparato.”

“Va predisposta una normativa più flessibile che consenta di adattarsi alle situazioni di emergenza, la sanità ha avuto a disposizione una legislazione di emergenza. Le strutture residenziali hanno perso i loro ospiti, tanti dipendenti si sono licenziati per paura; non esiste una legge che consente di assumere personale in emergenza, una cosa da fare al più presto visto che i focolai più gravi sono tuttora nelle strutture residenziali per anziani.”

Foto di copertina: villagecare.it

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