RSA, rischio chiusura dopo il COVID. O il modello era già vecchio?

“Se non si porrà rimedio, se governo e regioni non interverranno, molte residenze rischiano di chiudere entro la fine del 2021”: SenzaFiltro intervista Franco Massi, presidente nazionale Uneba.

“Se non si porrà rimedio, se governo e regioni non interverranno, molte residenze rischiano di chiudere entro la fine del 2021: ospitano soprattutto anziani non autosufficienti, poi altre categorie di persone bisognose di assistenza. Corrono il rischio di cessare l’attività per problemi economici legati alle conseguenze dell’emergenza sanitaria e per l’esodo degli infermieri, attratti dalle offerte avanzate in questo periodo dalle strutture pubbliche. Sarebbe una grandissima perdita per il Paese, visto che noi del settore non-profit – con più di 120.000 persone assistite nelle RSA e circa 100.000 dipendenti – garantiamo l’assistenza in più di un terzo delle strutture residenziali.”

Sono parole di Franco Massi, presidente nazionale di Uneba (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale): è la più “antica” organizzazione di categoria del settore sociosanitario, assistenziale e educativo, nata nel 1950; rappresenta circa mille enti, quasi tutti non-profit e con radici cristiane, che gestiscono circa 1.200 residenze e servizi.

La preoccupazione del presidente di Uneba è comprensibile. Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), che sono non-profit, assistono il 40% degli anziani non autosufficienti; il 10% spetta a enti religiosi, il 15% ai comuni, un altro 10% a enti diversi, mentre del 25% si occupano società private concentrate sul business (spesso con radici all’estero). Ebbene, le RSA hanno subito un duro colpo dalla pandemia; tanto che – senza interventi – molte dovranno decidere se interrompere o ridurre i servizi. E i contraccolpi colpiranno sia le persone assistite e le loro famiglie, sia i lavoratori.

Qual è la situazione, presidente Massi?

Normalmente il 40% degli introiti viene dal Fondo Sanitario Nazionale, attraverso le regioni, e il 60% dagli ospiti o dalle loro famiglie. Non siamo società private che guardano al profitto: se avanza qualcosa lo investiamo nelle strutture e nel miglioramento dei servizi. Per il momento prevediamo perdite del 20%, visto che le presenze, in questo momento, sono scese almeno del 15% tra mortalità e blocco degli ingressi, mentre i costi sono aumentati. Ci aspettiamo che ci arrivi più del 90% dei contributi già previsti nei bilanci, quello statale e quelli regionali. Anche se sarebbe necessario ottenere di più, per compensare il calo di presenze e le spese maggiori sostenute durante l’emergenza. Non dimentichiamo che le risorse statali nel corso della pandemia sono state destinate quasi del tutto ai servizi erogati direttamente dal settore pubblico. Quindi il privato non-profit è rimasto solo, sebbene rappresenti la maggior parte delle strutture sociosanitarie. In Lombardia, per esempio, copriamo più del 70%.

Perché aumentano i costi?

Costano di più, per esempio, i dispositivi di protezione individuale. E i ricavi scendono non solo a causa degli ingressi contingentati, ma anche in seguito alle procedure di isolamento.

Qualche esempio concreto?

I guanti sanitari. Sono indispensabili, a prescindere dalla pandemia. Ebbene, una confezione contenente un centinaio di guanti è passata da 1 euro e 80 centesimi medi, prima dell’emergenza, a 8 euro: cinque volte di più. Per ogni assistito ne vengono usati mediamente 16 paia al giorno. Per questi e altri presidi sanitari abbiamo calcolato che, nel secondo semestre del 2020, solo in Lombardia siano stati spesi dalle RSA 12 milioni in più.

Però c’è chi sostiene che le RSA siano superate e che si debba passare all’assistenza domiciliare

Bellissimo, sulla carta. Chi lo dice però deve fare i conti con la realtà. Nelle RSA sono ospitate più di 280.000 persone anziane non autosufficienti; altre 40.000 persone si trovano nelle strutture per disabili. Può darsi che il 10-12% di queste sia teoricamente in grado di usufruire di assistenza domiciliare o di altri servizi territoriali. D’altra parte, curare l’anziano e il disabile a domicilio è buona cosa, purché ci sia una famiglia che li accolga e – per nulla secondario – il personale, cioè parecchi medici e infermieri che li assistano quotidianamente.

Esiste questo tipo di personale?

Non mi pare, tranne qualche esperimento non consolidato. Prendiamo la Lombardia: per i malati che necessitano di un ricovero va bene; per il resto manca una rete sanitaria territoriale (ambulatori, medici di famiglia, servizi di base), sociosanitaria e sociale. E le strutture che ci sono non dialogano tra loro. Non basta curare, bisogna saper prendersi cura; così come occorre partire dai bisogni della gente, non dai limiti delle strutture disponibili.

Quindi l’assistenza domiciliare dovrebbe essere rafforzata?

Sì. Più assistenza domiciliare, ma complementare alle strutture residenziali, anche grazie ai nuovi sistemi messi a disposizione dalla telemedicina. Sono comunque pochissimi gli anziani non autosufficienti che possono essere seguiti a casa. Come dicevo, tra il 10 e il 12%. Il restante 90% ha pluripatologie che non possono essere seguite a domicilio. Si rischia di gettare al macero quello che funziona, senza avere vere alternative. Una scelta miope, soprattutto se si pensa che la popolazione anziana è destinata ad aumentare e che l’Italia, rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea, ha la metà dei posti letto disponibili per gli anziani.

In questa situazione di difficoltà, legata all’emergenza sanitaria, chi lavora nelle RSA potrebbe perdere l’occupazione?

Per ora si è fatto ricorso alla cassa integrazione, ma soltanto per i cosiddetti OSS, cioè gli operatori sociosanitari, che affiancano il personale infermieristico. La cassa non riguarda medici e infermieri. Anzi, agli infermieri offriamo superminimi per farli restare, con un ulteriore aumento dei costi.

Perché gli infermieri se ne vanno dalle RSA?

Perché pensano che il settore pubblico offra più vantaggi. Oggi impieghiamo nelle strutture Uneba, su 100.000 lavoratori, circa 15.000 infermieri. Però già così ne servirebbe almeno il 15% in più.

E continua l’esodo.

L’addio degli infermieri alle nostre strutture in favore degli enti del servizio sanitario regionale è molto allarmante e pericoloso. Noi e altre associazioni di categoria (come Anaste, Agespi, Aris e Ansdipp) il 3 marzo scorso abbiamo lanciato un appello al governo e al ministro della Sanità, Roberto Speranza. Le cose potrebbero aggravarsi ancora, visto che alcune strutture sanitarie pubbliche stanno per assumere altro personale anche per coprire la nuova figura dell’infermiere di comunità.

Che cosa potrebbe succedere?

Nella lettera mandata a Speranza lo scriviamo esplicitamente: se gli infermieri ci lasceranno sarà quasi impossibile sostituirli, perché sul mercato ce ne sono pochissimi. Sosteniamo che la mancanza di infermieri – leggo testualmente – “rappresenta un concreto pericolo di tenuta organizzativa con la conseguente e inevitabile implosione del sistema delle cure extra-ospedaliere, che creerà effetti nefasti nei confronti proprio del sistema ospedaliero”.

È un braccio di ferro tra settore pubblico e settore privato non-profit, insomma?

No. Anzi, si deve tenere ben presente che noi gestiamo strutture residenziali sanitarie e sociosanitarie accreditate. In altre parole, ci viene riconosciuta dallo Stato e dalle regioni la possibilità di erogare prestazioni. Quindi siamo inclusi a pieno titolo nel Sistema sanitario nazionale e regionale.

Le vostre richieste per evitare di restare senza personale sanitario?

Prima di tutto, chiediamo di poter assumere infermieri stranieri, anche extracomunitari, iscritti negli albi professionali dei loro Paesi, per tutta la durata dell’emergenza sanitaria. Gli enti del Sistema sanitario nazionale lo possono già fare. D’altra parte è una richiesta che noi dell’Uneba sosteniamo da prima della pandemia. Bisogna anche accelerare l’iter per l’equipollenza dei loro titoli di studio. Inoltre riteniamo che si debbano prevedere corsi specialistici di formazione per gli operatori sociosanitari, gli OSS, in modo che possano supportare gli infermieri. So che si stanno aumentando i posti nei corsi di laurea in Scienze infermieristiche, ma prima che escano le persone formate passeranno tre o quattro anni. Noi ne abbiamo bisogno subito. E la nostra richiesta riguarda pure i medici.

Però tra il personale della RSA c’è anche chi rifiuta il vaccino.

Noi chiediamo che tutti aderiscano alla campagna vaccinale. Ci regoliamo così: il medico del lavoro inserisce il vaccino come requisito indispensabile per poter operare nelle strutture. Chi non lo fa è dichiarato non idoneo al lavoro e viene messo in ferie o in cassa integrazione. Certo, rischia il licenziamento, però ha tutto il tempo per cambiare idea.

Insomma, rivendicate il vostro ruolo. Ritiene che non venga riconosciuto?

Io dico che, se sono eroi gli infermieri e i medici negli ospedali, lo sono anche i nostri, sebbene si sia evitato di sottolinearlo, a volte persino tentando di criminalizzarli. In molti casi sono rimasti chiusi nelle RSA, per evitare di portare dentro il virus. Hanno dovuto sostituire anche l’affetto dei parenti degli assistiti, si sono dovuti allontanare dalle loro famiglie. Sono eroi pure loro. Non lo deve dimenticare nessuno. Mai.

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