Saremo tutti freelance: molto liberi, probabilmente poveri, in attesa di capire quanto felici

Freelance, gig economy, flessibilità, innovazione. La storia che stiamo vivendo, e che voglio in parte raccontare, è una storia principalmente fatta di parole; parole che non sempre raccontano ciò che accade davvero. Che evocano sensazioni e situazioni ben lontane dal reale, o che sfruttano, anche volontariamente, l’appeal di un termine nuovo, o romantico, spesso inglese, […]

Freelance, gig economy, flessibilità, innovazione. La storia che stiamo vivendo, e che voglio in parte raccontare, è una storia principalmente fatta di parole; parole che non sempre raccontano ciò che accade davvero. Che evocano sensazioni e situazioni ben lontane dal reale, o che sfruttano, anche volontariamente, l’appeal di un termine nuovo, o romantico, spesso inglese, per nascondere un comportamento poco giusto, a tratti anche disumano.

Pensiamo ad esempio alla parola “freelance”, con dentro quel free che sembra sia la vita che tutti vorrebbero fare. Un lavoro libero da impegni, vincoli e padroni, dove ogni giorno è una nuova avventura. Un lavoro in cui se ti alzi con il piede storto o con la febbre, non c’è alcun problema: fai retromarcia, rewind, rimetti il piede dentro il letto, ti accucci nuovamente sotto le coperte e domani è un altro giorno.

Eppure, per quanto io sia da sempre un freelance felice di esserlo, la verità è che la parola oggi è tremendamente più vicina al termine coniato da Walter Scott in Ivanhoe, per descrivere un “soldato mercenario medievale”.

Freelance, ma non per scelta

Un rapporto McKinsey del 2016 spiega ancora bene la situazione: 162 milioni di persone in Europa e negli Stati Uniti – dal 20 al 30 percento della popolazione in età lavorativa – sono impegnati in una qualche forma di lavoro indipendente, ma non sempre è davvero una scelta di vita.
Lo studio, dall’emblematico titolo Lavoro indipendente: Scelta, necessità e gig economy, ha intervistato circa 8000 persone andando a tracciare diverse tipologie di freelance, la maggior parte dei quali non ha scelto di diventarlo, perché non poteva scegliere. Coloro che hanno scelto una carriera da battitori liberi sono solo una piccola parte. La maggior parte, invece, rientra in una delle seguenti categorie:

  • casuali: che lavorano volontariamente anche da freelance per un reddito extra;
  • finanziariamente legati: come nel caso precedente ma con l’assoluta necessità di intercettare lavori saltuari per un pieno sostentamento;
  • riluttanti: un po’ come succede ai venditori, sono impegnati sino a quando non riescono a trovare un lavoro da dipendente.

Va da sé che circa ¾ dei freelance, o almeno più della metà, non sono affatto i lavoratori liberi e felici che si potrebbe pensare; operano in situazioni di estrema precarietà (a volte vera e propria miseria) e dunque in condizioni poco lucide, studiate o basate su un minimo di strategia.

Ciò che ne consegue è un brutto circolo vizioso: una guerra al ribasso dove per vincere si tocca davvero il fondo. Per certi versi ricorda le schiere di persone che sostavano all’esterno delle fabbriche o dei campi in attesa che il padrone, a sorte, decidesse che era il giorno in cui fargli guadagnare un pezzo di pane.

Un’immagine di Cinderella man “inquietante e attuale?”

Per intenderci: un articolo di oltre 1000 parole viene pagato spesso meno di 10 euro, o con sistemi che arrivano a “remunerare” 0,005 centesimi a parola.

Come nasce la richiesta del lavoro freelance

Situazioni identiche si trovano però in tantissimi altri campi. Soprattutto quelli legati al mondo digitale e creativo, ma non solo.

Il fenomeno freelance, dei lavoratori liberi o “a contratto”, è chiaramente legato all’esplosione del mondo online, della gig economy, la cosiddetta economia della condivisione, e dalla globalizzazione ormai tanto matura quanto priva di limiti.

In Exponential Organizations: Il futuro del business mondiale Ismail Salim – per intenderci, uno dei fondatori della Singularity University – mette il lavoro staff on demand, insomma fluido e su richiesta, tra i requisiti di un’organizzazione esponenziale (capace di prosperare nell’attuale mercato, e sulla scia dei nuovi colossi quali Amazon, Uber e Snapchat). Ma ancora più interessante è il modo in cui introduce e argomenta il concetto, confrontando cioè il vecchio e il nuovo modello – e il vecchio e nuovo “significato del lavoro”.

In un Libro bianco pubblicato nel 2012 per l’Aspen Institute, Michael Chui, del McKinsey Global Institute, così descrive la teoria dell’occupazione nel XX secolo: “Il modo migliore per sfruttare il talento umano è attraverso relazioni esclusive e a tempo pieno, in cui gli individui vengono retribuiti per il tempo che passano in ambienti comuni. Questi dovrebbero essere organizzati in gerarchie stabili, in cui i lavoratori sono valutati principalmente attraverso il giudizio dei loro superiori, e ricevono istruzioni su cosa fare e come farlo”.
Chui passa poi a demolire punto per punto questa teoria per dimostrare come essa sia stata sostanzialmente superata in poco più di un decennio. Letteralmente, oggi nessuno di questi punti è valido. Per qualsivoglia ExO, disporre di uno Staff on Demand (SoD) è necessario per garantire velocità, funzionalità e flessibilità in un mondo in rapida evoluzione. Affidarsi a personale esterno alla propria organizzazione è fondamentale per la creazione e la gestione di un’ExO di successo. Il fatto è che, indipendentemente da quanto brillanti possano essere i vostri dipendenti, c’è un’alta probabilità che la maggior parte di essi diventi superata e non competitiva sotto i vostri occhi. Come nota John Seely Brown, una volta acquisita, una capacità durava mediamente trent’anni. Oggi siamo scesi a circa cinque.

I vantaggi del lavoro su richiesta e senza vincoli appaiono invece entusiasmanti:

Nel 2011, il gigante delle assicurazioni Allstate, che ha quaranta dei migliori attuari e data scientist al mondo, indisse un concorso su Kaggle per valutare la possibilità di migliorare l’algoritmo che usava per i reclami. Il risultato fu che l’algoritmo di Allstate, che era stato scrupolosamente ottimizzato nel corso di oltre sessant’anni, venne migliorato ulteriormente in soli tre giorni dall’inizio del concorso da ben 107 team in gara. Alla fine, tre mesi più tardi, l’algoritmo originale era stato migliorato del 271%. E, mentre il premio costò alla compagnia diecimila dollari, i risparmi dati dall’utilizzo di algoritmi più efficienti sono stati stimati nell’ordine delle decine di milioni all’anno.

In nome dell’innovazione

Come d’apertura: il problema sta nelle parole, che raccontano solo parte della storia. Nei passaggi del libro di Salim ricorrere al lavoro freelance, staff on demand, sembra solo una nuova sfumatura del progresso; una cosa nuova ed entusiasmante. Perché imbrigliare le persone dentro un ufficio e lasciarle appiattire quando è possibile che lavorino dove gli pare, con chi gli pare e quando gli pare?

In realtà, se per le aziende è davvero un bel vantaggio, per i freelance non è una prospettiva altrettanto felice. Riprendendo le statistiche sul motivo per cui le persone ricorrono al lavoro indipendente, è chiaro che la maggior parte non beneficia in alcun modo da questi meccanismi, ma ne subisce solo la competizione. Se la maggior parte delle persone è “libera” in attesa di altro, ne consegue anche un minor impegno nella formazione, un generale livellamento al ribasso delle competenze e una conseguente svalutazione su un mercato dove altrettante persone stanno cercando di vendersi per un tozzo di pane.

Interessante ragionare anche sull’evoluzione della figura del consulente, e il freelance in genere lo è, come faceva tempo fa su questo giornale Osvaldo Danzi: “Il consulente aziendale era una figura ricercata per la quale le telefonate avevano un unico senso: in entrata. Ma anche una dignità professionale avvalorata da parcelle milionarie a fronte di una preparazione commerciale e finanziaria costruita a contatto con figure di alto livello che tramandavano conoscenze ed esperienze mai più ripetute”.

Oggi la maggior parte delle persone salta a piè pari nel mondo freelance, ed è lì che inizia la gavetta. Che però è completamente diversa, in quanto non prevede alcuna forma di riparo.
Non c’è un “senior” ad affiancarti, non c’è uno “stipendio da farti bastare”; non c’è proprio uno stipendio, non c’è alcuna garanzia.

Nel 2012 il fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman, prevedeva che “le persone impareranno gradualmente a gestire se stesse come un’impresa”, ma sempre lui nel suo libro chiariva che non tutti sono inclini a essere imprenditori. Il grande problema si trova in mezzo: siamo tutti imprenditori ma quasi nessuno è preparato. In altre parole, chi sta scegliendo di esserlo è in forte minoranza.

Poco slow, molto low

L’altro aspetto della vicenda, volendo essere chiari, è che il mercato va in questa direzione per un motivo preciso, che riguarda poco l’innovazione. Riguarda i costi, le necessità e le responsabilità. Un freelance costa meno di un dipendente. Anzi, non costa quasi nulla. Lo paghi quando ti serve, non ti tocca seguirne la formazione, avere paura di maternità, paternità, malattie.

Le aziende non stanno assumendo freelance perché hanno letto Exponential Organizations e ne sono rimaste folgorate; lo stanno facendo per risparmiare e perché per certi versi – pensiamo all’Italia – è insostenibile mantenere un dipendente.

Lo stanno facendo perché la pressione che vivono i freelance è la stessa che vivono le imprese. La gig economy creata da alcuni sta andando di traverso quasi a tutti. Dunque o risparmi, o abbatti i costi, o sparisci dal mercato. Lo stanno facendo perché noleggio meglio del possesso sembrava riferirsi solo a stampanti, pc e auto, ma si è scoperto che funziona meglio per le persone. Lo stanno facendo perché dietro la parola “agile”, che tanti esaltano come fosse la liberazione dagli Egizi, c’è invece il taglio e lo scarico delle responsabilità. “Saremo tutti soci” poteva essere un valido titolo a questo pezzo e alla situazione del lavoro di oggi. E forse anche di domani.

L’altro aspetto è che nella maggior parte dei casi ci stiamo dirigendo in una direzione dove si chiede un lavoro “veloce e sporco”; altro che prendersi il tempo e dedicarsi alla mindfulness!

Vivere a chiamata

A proposito di vita, la cosa più sconcertante, sulla quale è necessario ragionare, è come si vive da freelance in questo mercato. I prezzi bassi sono solo la punta dell’iceberg. Il vero problema del “lavoro a chiamata” è che tantissima gente sta vivendo, quando viene chiamata.

Un esercito di professionisti di ogni genere ed età che non può programmare, risparmiare, scegliere, pensare al mese successivo, investire in formazione. Un esercito di persone che vive il qui e ora, che pare lo stia facendo per scelta (sono freelance, d’altronde), e invece lo fanno perché non potrebbero fare altrimenti.

C’è un sacco di filosofia su ciò che le persone vogliono nella vita, ma di certo nessuno vuole davvero vivere così. Ad esempio: un’indagine del 2016 di Career Advisory Board della DeVry University rivela che, contrariamente all’idea generale, il 91% dei millennial vorrebbe un lavoro a tempo pieno. Buona parte dei freelance vive quella che Hbr ha definito epidemia di solitudine.

Fare un lavoro che ami solo quando qualcuno decide che puoi farlo è quasi peggio che fare tutti i giorni un lavoro da schifo.

Tanto tempo libero e pochi soldi. Dunque infelici?

Le cose sono fatte per essere usate. Le persone sono fatte per essere amate.
Il mondo va storto perché si usano le persone e si amano le cose.
(Anonimo)

Che cosa ci aspetta in futuro? Le tendenze digitali e globali sono troppo definite per prevedere sorprese. L’intelligenza artificiale, probabilmente, farà il resto: saremo quasi tutti più liberi, e probabilmente più poveri.
La strada da percorrere sembra quella di andare avanti in tutti i sensi, rimettere la chiesa al centro del villaggio, le persone prima dei lavoratori. Accordi sindacali sono al vaglio in Gran Bretagna e Usa; speriamo si possa vedere la luce anche in Italia. Ma più importanti e incoraggianti sono i segnali che vengono dalla società: oltre il 55% delle persone si dice disposto ad acquistare, anche a un prezzo più elevato, prodotti e servizi di aziende responsabili.

La responsabilità, in questo caso, è ricorrere a tutto il lavoro indipendente del mondo, ma in modo equo, non favorendo una guerra al ribasso, lo svilimento delle professioni e degli esseri umani. Uguaglianza e umanità sono due parole che sentiremo con frequenza sempre maggiore nel prosieguo di questa storia. Speriamo solo abbiano un significato coerente e non rimangano lo smacco che è per molti la parola “freelance”.

Perché alla fine non è che essere freelance faccia davvero schifo. Anzi è un’esperienza bellissima. Se lo scegli tu.

Se lo scelgono per te è una maledizione. Con un nome beffardo. Free-che?

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