La ristorazione degli alberghi non è più di serie B

Strana parabola, quella della ristorazione in Italia. Quando ci capita di incontrare un imprenditore del settore vinicolo, o qualsiasi altro fornitore di beni o servizi, ci racconta di quanto l’Italia sia sempre meno importante sotto l’aspetto dei business generati nell’universo ristorazione. Il ritornello è più o meno lo stesso, sembra recitato all’unisono: “L’Italia per noi […]

Strana parabola, quella della ristorazione in Italia. Quando ci capita di incontrare un imprenditore del settore vinicolo, o qualsiasi altro fornitore di beni o servizi, ci racconta di quanto l’Italia sia sempre meno importante sotto l’aspetto dei business generati nell’universo ristorazione. Il ritornello è più o meno lo stesso, sembra recitato all’unisono: “L’Italia per noi vale sempre meno. L’export ci consente di raggiungere performance impensabili nel nostro Paese. Le più grandi soddisfazioni, oggi, arrivano dai mercati internazionali nei quali presidiamo il segmento consumer ma dove siamo presenti anche nell’horeca. Da noi, purtroppo, la crisi ha azzerato o comunque indebolito le nostre attività commerciali. E poi, le difficoltà di incasso sono notevoli”. Vale a dire: molti ristoratori non pagano, o pagano in ritardo, a dispetto di leggi che vengono, come dire, superate dalla dura realtà dei fatti. Ma è proprio così? È pur vero che molti osti, trattori e gestori di locali spesso si lamentano di come vanno le cose ma, facendo una mini-inchiesta “incrociata” fra ristoratori e aziende fornitrici, sono emersi risultati degni di nota.

Primo: non è sempre vero che i ristoratori “non pagano”. Anche perché chi lavora poco fa pochi ordini diretti presso le aziende e preferisce acquistare personalmente ciò che gli occorre (in quantitativi minimi) attraverso canali commerciali tradizionali. Quindi, la eventuale morosità riguarda solo alcuni e non certo la totalità dell’universo.

Secondo: a Milano e Roma (solo per citare due realtà metropolitane connotate da indubbia vivacità) i ristoranti sono sempre pieni, anzi strapieni. Aveva dunque ragione Silvio (nel senso dell’ex presidente del consiglio)? Non sappiamo dare una risposta, ma ci piace constatare, all’insegna dei “fatti separati dalle opinioni”, che in queste città è ormai obbligatoria la prenotazione, anche a pranzo, indipendentemente dalla tipologia del ristorante che si scelga. Vale a dire: anche le cioffeche non hanno tavoli liberi.
Il ritmo di apertura di nuovi esercizi è quasi imbarazzante, al ritmo (almeno a Milano e in alcune aree della Lombardia) di 3-4 al giorno, con la ristorazione cosiddetta etnica al primo posto (molti i locali gestiti da cinesi ma travestiti da giapponesi), seguita dalla tipica e regionale (locali di impronta partenopea crescono come funghi), da quella a base carne (una hamburgeria a settimana) alle formule “bistrò”, ritenute più accessibili dal pubblico giovanile. Segnano il passo i wine bar che, fino al Duemila, avevano subito incrementi iperbolici, soprattutto al nord est dove vivono e prosperano sotto la forma di “osterie del vino”. Verona docet.

Sono diventati tutti gourmand? Sicuramente l’aumento della presenza di clientela internazionale nel nostro Paese contribuisce al giro d’affari della ristorazione, dove peraltro – al netto delle tavole stellate, condotte da chef di fama e bravura indiscusse – la professionalità non sembra essere un valore diffuso, a scapito di una furbizia generalizzata che, come usava una volta, lavora su ricarichi molto elevati e su un price for value squilibrato, pur nella impostazione trendy e modaiola degli ambienti e del servizio. L’imminenza dell’EXPO, peraltro, ha visto all’opera centinaia di nuove piccole e medie imprese di ristorazione che si sono “buttate” anima e corpo, grazie a liquidità talvolta discutibili, su un affare dalle grandi potenzialità ma dall’incerto svolgersi.

La terza realtà emersa dall’indagine ha però evidenziato un altro dato, questo sì confortante: stanno aumentando i ristoranti di città (e non solo) in cui è ritenuto fondamentale il ruolo dello chef, della cucina, delle materie prime utilizzate e delle tecniche di cottura. Vale a dire: ci sono ancora imprenditori disposti a rischiare sulla qualità e intenzionati a puntare su segmenti di clientela più evoluta, gourmet ma anche semplicemente appassionati di cucina alla ricerca di piatti caratterizzati, non banali, autentici. Preparati e proposti da professionisti della cucina a cui viene lasciata “mano libera”. Questo accade soprattutto fra gli imprenditori più evoluti e raffinati, che sanno bene che la qualità è un valore aggiunto fondamentale. Certo, la location è essenziale, ma non basta da sola all’affermazione di un concept innovativo o di un locale che propone alta tradizione culinaria o di chi, viceversa, gioca sulla genialità dello chef e della sua brigata. Comunque, a dare un buon contributo a questo “movimento” sono state le catene alberghiere che, con sensibilità e conoscenza del mercato, hanno posizionato nei ristoranti dei propri alberghi, di città o di vacanza, chef di calibro riconosciuto o giovani emergenti che dedicano impegno, cultura e sperimentazione alla propria attività, tra l’altro con un occhio molto attento al pubblico crescente degli “intolleranti”. Così si è riportata al centro dell’attenzione un’offerta di ristorazione, quella alberghiera, per troppo tempo ritenuta di serie B: oggi il riscatto è ormai metabolizzato e la percezione della cucina d’hotel è molto elevata. Grazie ad investimenti delle compagnie, certo, ma anche e soprattutto in virtù di un drappello di chef connotati da valore, stile, e, dote che non guasta mai, rara umiltà.

[Credits immagine: luxurytravelmagazine.com]

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