Lavorare in gruppo o vincere in squadra?

(in collaborazione con Osvaldo Danzi) Molte delle dinamiche che ho sperimentato direttamente nella mia attività di giocatrice sono simili a quelle che si riscontrano in azienda. Cambiamento, motivazione, nuovi stimoli, spirito di squadra. Sembra che come nello sport, anche le aziende abbiano bisogno di affrontare questi temi in maniera sempre più urgente. Quando SenzaFiltro mi […]

(in collaborazione con Osvaldo Danzi)

Molte delle dinamiche che ho sperimentato direttamente nella mia attività di giocatrice sono simili a quelle che si riscontrano in azienda. Cambiamento, motivazione, nuovi stimoli, spirito di squadra. Sembra che come nello sport, anche le aziende abbiano bisogno di affrontare questi temi in maniera sempre più urgente.

Quando SenzaFiltro mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul tema dei coach e degli sportivi in azienda, ho accettato di condividere la mia nuova esperienza di sportiva prestata alla formazione proprio per mettere in relazione tante similitudini e raccontare le mie impressioni sulle differenze e su quanto lavoro si possa fare contaminando due mondi a cui non basta la partita singola, ma che aspirano ogni anno a vincere un campionato.

Il mondo aziendale mi sta affascinando, non solo per le dinamiche così vicine all’ambiente in cui ho sempre lavorato ma perché mi permette di condividere nessi logici che funzionano tanto nello sport quanto in azienda. Certo di sicuro ci vuole una base di preparazione; non basta raccontare la propria vita.

E allora cerco di fare tesoro delle mie esperienze e di trasmettere i valori che ho imparato a mia volta. Dunque, prima di tutto parlo di formazione. Una donna come me che ha vissuto con l’adrenalina a chilate ogni giorno, ovviamente ha avuto dei maestri importanti. Velasco era uno stimolatore, una persona che ti incentivava, ti motivava. Lo dico sempre quando sono in azienda: “è importante che chi ti guida sappia riconoscerti ed entusiasmarti”. Eppure Julio non è nato così: poi la capacità di adattarsi, di capire il gruppo, di entrare con intelligenza nelle dinamiche comportamentali, studiare le persone nel loro profondo hanno fatto di lui un grande allenatore.

Ecco dove uno sportivo-formatore fa davvero la differenza: quei temi così urgenti, così necessari per essere competitivi come la motivazione, il team affiatato, l’importanza dell’errore, l’orientamento all’obbiettivo, lo sportivo li ha vissuti, sofferti e superati in prima persona. E’ il testimonial vivente di ciò che sta raccontando. Personalmente mi sento una libera professionista fin dall’età di 16 anni, con tutte le dinamiche tipiche di chi entra in un gruppo di lavoro dove l’obbiettivo è quello di inserirsi velocemente in un contesto e dove i tuoi alibi di età, provenienza, gap culturali o ambientali non fanno parte del gioco. Sei li per un obbiettivo. Ma è fondamentale ricevere stimoli continui, addestrare il carattere. Non riuscire ad essere parte integrante di una squadra è una sconfitta. Visto quanti temi legano lo sport all’azienda?

Quelli che si sono arresi. 

Faccio tanti incontri anche nelle Scuole e nelle Università e mi trovo di fronte a realtà molto diverse fra loro, alcune anche molto difficili. Ciò che mi ha davvero colpito è vedere ragazzi che si sono già arresi. Quando tu chiedi a questi ragazzi “che tipo di lavoro vuoi intraprendere nella tua vita?” Qualcuno mi risponde “il mantenuto” “i miei genitori non lavorano, perché dovrei lavorare io”.  Arresi.

Dietro un’educazione sociale che deriva da una grossa responsabilità sia dei maestri sia dei genitori, se un alunno trasmette una mancanza di prospettiva così scoraggiante, il maestro deve lavorarci di più, deve dargli strumenti. Poi ognuno ha il proprio carattere ma non è ammissibile che un ragazzo di sedici anni non abbia un sogno.

Sento che devo intervenire. In un paese dove sono tutti masterchef o fenomeni musicali, abbiamo la responsabilità della normalità. Non possiamo far credere a tutti i ragazzi che potranno diventare dei capitani della nazionale o che saranno primi in tutto ciò che faranno, ma bisogna almeno trasmettere loro che è importante che inizino un cammino, il loro cammino giusto o sbagliato che sia.

Racconto sempre di come io abbia vinto 5 scudetti ma anche di come ne ho persi altri 10, di come abbia vinto 3 Champions League ma anche delle tante a cui non ho nemmeno partecipato. Sono caduta un milione di volte ma lo sport mi ha dato gli strumenti, i mezzi, la tenacia per rialzarmi e questo è ciò che devono fare i maestri e i formatori. Dare valore alle scelte dei loro ragazzi e sostenerle fino in fondo.

Qualcuno va all’università perché il padre ha deciso che deve fare medicina, ma magari questi ragazzi sono portati per fare gli imbianchini. Bisogna insegnare ai ragazzi a fare ciò che sentono, dare valore alle loro capacità, rispondere con entusiasmo ad un percorso che hanno scelto loro e affiancarli in questa scelta. Permettere loro di sbagliare, di rifletterci e di correggersi. Meglio essere imbianchini di successo o dottori mediocri?

La parola crisi è diventata un compagno d’avventura, “siccome c’è crisi quasi quasi non faccio nulla”. Invece a mio parere la crisi è un modo per riqualificarsi, per spingere ancora di più sull’acceleratore. Ed è quello che cerco di raccontare nelle scuole. Oggi che sono anche madre se devo pensare che i miei figli a 16 anni si sentano arresi mi viene il voltastomaco.

Ma il tema degli arresi, che parte dalla scuola, spesso arriva anche nelle aziende. Te ne accorgi quando entrano in ufficio, fanno il loro compitino e tornano a casa. Ma perché non provare a cambiare la mentalità?  Perché non provare a cambiare l’ambiente e l’atteggiamento noi in primis e capire che nello stato delle cose i primi a risentirne siamo proprio noi?

Un discorso che riguarda i singoli, certo. Ma che anche le aziende da parte loro è importante che affrontino, facendo una seria autocritica soprattutto nei confronti del proprio management laddove sono tutti numeri uno alle cui spalle spesso non c’è nessuno. Non sono leader, lavorano da soli senza nessuno che li segua. Nessuno li riconosce come tali, sono leader sul biglietto da visita ma non fanno in realtà crescere altri leader, non sanno mettersi da parte a beneficio della squadra. Il leader non è un individuo, è un costruttivo. Uno che alza la voce, si impone e fa sentire l’importanza del suo ruolo rispetto alle scelte che fa, non è un leader.

Incredibilmente questo argomento ha una grande presa nelle aziende a forte componente femminile, forse a testimonianza di un altro tema che ricorre anche nello sport e che rappresenta il diverso approccio sul lavoro fra team maschili e team femminili. Mettiamocelo in testa: quando le donne sono unite, fanno molta più squadra degli uomini. I leader che non capiscono questo vantaggio competitivo, e non sanno sfruttare un’opportunità di questo genere, perdono in casa. Le donne fanno più fatica a fare squadra nell’immediato, ma una volta che il gruppo si solidifica sono imbattibili. Questo è un tema di formazione straordinario per chi deve dirigere aziende in cui le donne sono numericamente superiori e dove è importante avere un approccio “customizzato per genere”. Gli uomini e le donne vincono in modo diverso e hanno bisogno di leader che sappiano guidare le differenze.

Il leader perfetto ti sa riconoscere in un batter d’occhio. Ha una sensibilità nel fare una fotografia di noi stessi. Capisce velocemente il tipo di persona che ha di fronte, le esigenze, i limiti e riesce a tirar fuori il potenziale da ognuno dei suoi collaboratori. Questo è il mio coach ideale. Io sono stata sempre un’atleta di testa, avevo bisogno di stimoli mentali. Gli allenatori più grandi che ho avuto sono quelli che sono riusciti a capire che non mi bastava riuscire a fare 100 schiacciate ma che avevo bisogno di entrare in squadra, avere delle dritte a livello emotivo. Così il vero coach aziendale riesce ad individuare che tipo di squadra ha di fronte.

Lavorare in gruppo o vincere in squadra.

Non confondiamo il gruppo con la squadra. Una cosa è il gruppo che va per i fatti suoi dove ognuno fa il suo compito, alla fine del mese ha il suo riconoscimento, se l’azienda ha fatto risultato o non lo ha fatto non si sente coinvolto. Non è stimolante né per chi lavora, né per chi è intorno a lui, né tantomeno per l’azienda. Il messaggio è quello di trovare linfa uno dall’altro, di non chiudersi e fare squadra.

E allora come la mettiamo con i talenti? Quei fuoriclasse importati da fuori per risolvere il campionato in momenti di difficoltà? Ben vengano i talenti, atleti straordinari che però non vanno lasciati da soli. Il vero lavoro che forse da fuori non si vede è comunque il lavoro di una squadra che deve saper fare culla al talento. E’ impossibile che la squadra vinca solo grazie al singolo. Io non sarei mai stata la miglior palleggiatrice di un mondiale se non avessi avuto la compagna che riceveva bene, la schiattrice che mi dava la percentuale di palla perfetta; è statisticamente impossibile che il talento possa risolvere. Puoi risolvere una partita ma non vinci un campionato. E questo dipende sempre dal bravo formatore (fermo restando che se hai una squadra di citrulli, anche il bravo coach può fare poco) che sappia trasmettere l’importanza del lavoro di tutti.

Quando nella mia squadra arrivava la giocatrice di talento, io sapevo che se volevamo vincere mi dovevo mettere a disposizione. Magari non mi piaceva, ma io sapevo che quella era la strada per vincere. Se volevo essere io la prima donna, non si vinceva. Questa è la prima lezione: se vuoi raggiungere un obbiettivo, ti devi mettere a disposizione della squadra e fare un percorso che da solo è più difficile se non impossibile, ma quantomeno inutile e molto più faticoso. Oggi le aziende si devono mettere in testa che devono far lavorare la squadra, perché individualmente non si raggiungono gli stessi risultati. Il gruppo è lenitivo, è coadiuvante. E’ l’essenza, non è l’individualità. Un gruppo fatto di individualità, che esprime sul lavoro le proprie problematiche e le proprie rassegnazioni è un gruppo spento che non porta risultati.

L’importanza dell’esperienza

Per concludere, se si parla di formazione non si può non parlare di esperienza. In azienda sempre di più si tende a lavorare non solo sui talenti, ma meglio se giovani. Sembra non ci siano più riferimenti nelle aziende che se da una parte hanno abbassato l’età media, dall’altro hanno perso le memorie storiche che il mondo del lavoro sta mettendo sempre di più ai confini. Mi rendo conto che oggi sia tutto più veloce e più rapido, ma i punti di riferimento sono fondamentali soprattutto quando in azienda mancano allenatori e l’esperienza si fa in campo. Una squadra non cresce se al suo interno non ha costruito una storia e non ha chi può testimoniarla al resto dei suoi componenti.

Il cambiamento di cui tutti parlano avviene se si conoscono alla perfezione i punti di partenza.

 

 

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