Cara Forbes Italia, una domanda

Alcuni exploit imbarazzanti dei premiati Forbes Italia under 30 sui social spingono a una riflessione sull’assegnazione del titolo. E sui modi della stampa di feticizzare un certo storytelling imprenditoriale

06.11.2023
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Ho una domanda per Forbes Italia.

Ma prima di porla mi tocca fare una piccola, lunghissima premessa.

Mi sono imbattuto nel post di un imprenditore nella cui job description campeggiava ben in evidenza “Forbes under 30“. L’uomo, co-founder (che poi in italiano si scrive cofondatore, esiste come parola ma vabbe’) e CEO di una agenzia di matching domanda/offerta, ex consulente di marketing digitale e campagne SEM di Google Ads, ex giornalista, blogger, organizzatore di eventi, pokerista, eccetera (leggo dal web) ha pubblicato una riflessione che vi riporto in alcuni passaggi chiave, legata al ruolo di dipendenti e collaboratori esterni nella sua azienda.

Perché mai oggi, 2023, un’azienda dovrebbe assumere a tempo indeterminato qualcuno invece che collaborare con un fornitore esterno in partita IVA?“, scrive affidando a LinkedIn un pensiero per cui si è detto “pronto agli insulti”.

Intanto verrebbe da dire che la risposta a tale domanda si scrive da sola, perché la fattispecie lavorativa subordinata (regolamentata dallo Stato italiano) è differente da una fornitura di servizi esterni e prestazioni professionali (altrettanto regolamentata dallo Stato italiano). Non sono due posizioni concorrenziali, non è una scelta tra due limoni diversi al banco frutta, ma tra un limone e un mango. Sappiamo bene che c’è chi ne approfitta, eh: quelli che sfruttano la (finta) partita IVA per scaricare sul (vero) subordinato l’onere di tasse e previdenza. Sicuramente non è questo il caso. Ma, tornando a noi, già la differenza tra le due fattispecie basterebbe per rispondere a tale dubbio.

Non finisce qui.

A parità di costo un fornitore esterno ha 3 volte la competenza di un dipendente“. Se lo dice lui, per carità.  Invece la frase del post “se un fornitore non piace si interrompe la collaborazione con qualche giorno di preavviso, se un dipendente non lavora bene si spendono migliaia di euro (se si è fortunati) per terminare il rapporto di lavoro, e spesso se ne spendono altrettanti in avvocati in caso di impugnazione” richiede un’operazione di verità.

La collaborazione col fornitore è vincolata di solito ad altrettanti contratti, se si tratta di prestazioni professionali. E per grazia di Dio si spendono migliaia di euro per terminare un rapporto di lavoro con un dipendente! Si tratta di un contratto tra le parti, che nelle sezioni non normate prevede CCNL di riferimento. Conquiste di anni di lotte liquidate così, come una spesa da corrispondere quasi infastiditi.

Secondo l’imprenditore, usare esterni e non interni non esporrebbe inoltre l’azienda a “scorrettezze” tipo “lavoro di merda tanto non possono licenziarmi” o “mi metto in malattia qualche giorno così mi riposo“. Io non oso immaginare il clima di sospetto che si vive in quell’azienda, se queste sono le convinzioni del suo CEO riguardo a cosa fanno i dipendenti; ma non entriamo nel merito della vita aziendale a noi non nota, bensì su altri due capisaldi delle ataviche convinzioni improponibili del mercato del lavoro italiano: il “non possono licenziarmi” non esiste, anzi. Fortunatamente, sempre per le conquiste di cui sopra, ai dipendenti sono concesse tutele, che siano benedette – visto il clima di isteria di taluni imprenditori che almeno così non possono fare il bello e il cattivo tempo a scapito di vite e famiglie altrui.

Ma, di base, il licenziamento c’è eccome, e fa parte di quell’insieme di cose in cui c’è anche il “contratto”, che altro non è che un accordo tra le parti. Per intendersi, parlo del licenziamento per “giusta causa” o per “giustificati motivi“. Quindi smettiamo di raccontarci balle su questi poveri imprenditori impossibilitati a cacciare via le mele marce, schiavi e sotto ricatto di tali pecore nere piovute chissà come sulla loro strada. Così come ricordiamo che i certificati medici fasulli sono perseguibili, e che recenti riforme hanno fatto sì che quel “mi metto in malattia qualche giorno” finisce per ridurre dopo una data soglia l’ammontare percepito in busta paga (con estremo dispiacere di quelli che in malattia ci vanno davvero per motivi gravi, e che oltre al danno si vedono recapitare a casa anche la beffa giustificata dalla caccia al fannullone di stampo brunettiano).

Continua il post: “In un’epoca in cui il turnover è altissimo e in cui la fidelizzazione a un contesto lavorativo dipende quasi solo dal vile denaro, perché mai un’azienda dovrebbe accollarsi tantissimi rischi e costi con pochissimi benefici?”. Perché è così che funziona in Italia, se hai necessità di persone che lavorino per te. Non è che hai altre scelte (e anche qui tralasciamo giudizi etici sulle fidelizzazioni legati al vile denaro – vile quando è quello voluto dal dipendente, ma meno vile quando si tratta di parlare di parità di costo come sopra).

Ma se fin qui comunque il tutto sarebbe relegabile al commento piccato sul social dei lavoratori indefessi, è la chiusa che mi lascia basito. Ed è la seguente: “Queste formule contrattuali sono nate decenni fa, in un mercato del lavoro che non esiste più, che senso hanno oggi di esistere ancora?“.

Ecco, va bene il chiacchiericcio da bar che fa engagement, ma è arrivato ora il momento di rivolgermi a Forbes che ha inserito tale imprenditore nel calderone dei premiati under 30 italiani di qualche anno fa – nel 2019, per essere precisi. Imprenditore di cui non ci interessa in questa sede, perché il punto non è ciò che la persona in questione crede riguardo il senso delle contrattualizzazioni lavorative.

Arriviamo quindi alla domanda.

Cara Forbes Italia, ma quindi tra i nomi deitalenti sotto i 30 anni” che “stanno cambiando il mondo” scelti “tra i promotori delle iniziative più innovative”, i “prossimi Mark Zuckerberg, Jeff Bezos ed Elon Musk” (e questo l’ho preso pari pari dalla pagina web di riferimento), ci mettete anche gli imprenditori – imprenditori, eh – che credono che leattuali formule contrattuali” “che senso hanno oggi di esistere ancora? C’è un controllo su tale filosofia, tale approccio alle fattispecie lavorative dei premiati in pectore? O almeno una verifica ex post?

Sia chiaro, non stiamo parlando del perché tra i prossimi Zuckerberg, Bezos e Musk ci siano Blanco o Geolier. Stiamo parlando del fatto che entrare in una classifica Forbes (o mettersi Forbes a cappello in ogni sua forma) per molti è una coccarda da esporre, da inserire nelle job description per certificare autorevolezza. In generale, una sorta di bollino di qualità sotto cui narrare storie eccezionali. Storytelling infarciti di sudore, lacrime, sogni e del magico potere delle idee e della perseveranza che però più passa il tempo più mostrano falle, convincenti meno della vita al limite della bidella dell’alta velocità Milano-Napoli.

Siamo nel solco di quei racconti che, con tale bollino di qualità, finiscono per premiare giovani meritevoli che dopo l’agognata entrata in lista diffondono le loro gesta a media unificati attraverso i loro uffici stampa, spesso dimenticando o tralasciando il background che li vede ad esempio rampolli di famiglie ricche, ricchissime, straricche. Insomma, vite in discesa fatte passare da addetti ai lavori per vite in salita.

Questo modello importato in Italia dal mondo anglosassone rischia di scricchiolare sotto il peso di sensazionalismo che finisce per tradurre il tutto in uno spottone ai premiati, che – oltre a dover guidare il futuro – guardano bene alle proprie bacheche LinkedIn e alla rassegna stampa di fine mese.

Del resto, proprio dal lungo elenco Forbes degli under 30, ma anglosassone, suona una piccola sirena d’allarme che dovrebbe fare da monito per chi di mestiere racconta le storie d’impresa. Arwa Mahdawi, giornalista del Guardian, andava a ritroso nell’elenco dei “furono” under 30 Forbes fuori i nostri confini per ricordare che tra i vincitori di tale premio o citati a vario titolo sono attualmente nei guai – e che guai – con la giustizia Charlie Javice (Frank), Sam Bankman-Fried (FTX), Caroline Ellison (Alameda Research), MartinPharma BroShkreli, Elizabeth Holmes (anche se per onor di cronaca va detto che la sua era solo una menzione d’onore). Tutti nel tentativo di tenere fede a tale racconto virtuoso e ai loro numeri straordinari.

“Il problema – scrive Mahdawi in questa occasione – non è Forbes; il problema è la visione del successo che ci è stata venduta e la feticizzazione della giovinezza“. E aggiunge: “Quella degli under 30 non è solo una lista, è una mentalità: la pressione di realizzare grandi cose prima che la giovinezza ti scivoli via”. Insomma, un circolo in cui “bisogna esserci”. Con il proprio volto migliore. Ad ogni costo.

Ah, ne approfitto, ho un’altra domanda per Forbes Italia, ora che ci penso: il titolo di Forbes under 30 può essere revocato per giusta motivazione o giusta causa?

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