Competere per caso

(in collaborazione con Osvaldo Danzi) Quando penso alla competizione, penso al posto da dove è partito tutto: la mia porta d’entrata nel mondo dello sport. Sono stato ovviamente un praticante del mio sport (e anche di sport molto diversi fra di loro), ma non sono stato come tanti un ex grande atleta. Ho iniziato sia a […]

(in collaborazione con Osvaldo Danzi)

Quando penso alla competizione, penso al posto da dove è partito tutto: la mia porta d’entrata nel mondo dello sport. Sono stato ovviamente un praticante del mio sport (e anche di sport molto diversi fra di loro), ma non sono stato come tanti un ex grande atleta.

Ho iniziato sia a fare sport che ad allenare in uno di quei luoghi che abbiamo un po’ perso e che invece dovremmo recuperare perché sono vere palestre naturali: l’oratorio del borgo della mia città, Torino.

Penso alla competizione e penso al caso. Caso ha voluto che Torino avesse una tradizione legata alla pallavolo e ad una squadra che stava vincendo tanto a cavallo degli anni ’80 – anche se le cose serie ho iniziate a farle qualche tempo più tardi – e che era un punto di riferimento importante. Così come è stato sempre il caso a fare in modo che avessi sotto casa la sede del CUS nel mio quartiere. Casuale rispetto a quello che in quel momento era stata anche la mia carriera scolastica: facevo il liceo scientifico e mi sono laureato in filosofia quando già esercitavo almeno da assistente allenatore in Grecia.

Il giro con cui sono arrivato alla professione è stato abbastanza lungo e mi ha permesso di attraversare tutte le categorie possibili dall’oratorio alla serie A. Il primo passo fondamentale a portarmi via da Torino è stato la conoscenza con Giampaolo Montali che era il tecnico che si incuriosì a quello che stavo facendo: avevo messo a sistema un modello di allenamento attraverso il supporto delle immagini al computer e lui mi chiese se avessi voglia di sperimentarlo con lui in Grecia per allenare l’Olympiakos con cui aveva appena firmato per due anni. Non ci pensai più di due secondi e dissi sì.

Dal punto di vista personale e individuale, tutte le mie esperienze risentono totalmente della mia formazione: ho dato allo sport un concetto molto laico e molto sacro, morale ed etico. Dal punto di vista manageriale le mie competenze si sono notevolmente arricchite grazie ad esperienze molto diverse dalla B2 alla A1, dalla Grecia alla Finlandia; poter vedere posti, tradizioni, mentalità così distanti tra loro è un tesoro enorme che ogni manager dovrebbe avere nel suo bagaglio per poter allenare una squadra vincente.

Sono cresciuto attraverso la somma di queste esperienze, non di una caratteristica specifica individuale. Se devo provare a riassumerle, dai campionati iniziali mi porto a casa il tema della passione. Chi vive quei campi lo fa gratuitamente, spesso sottraendo tempo al lavoro, alla famiglia, agli affetti. L’esperienza greca, così come quella italiana, mi ha insegnato invece la fondamentale capacità di distinguere il momento dell’allenamento da quello della gara. Ho imparato ad interpretare la gara come il punto di arrivo, la finalizzazione di tutto il lavoro che hai fatto durante la settimana. Al contrario l’esperienza finlandese per me è stata straordinariamente importante per insegnarmi il metodo, il rispetto dei patti, delle regole di quel lavoro di preparazione.

Faccio sempre questo esempio: partiamo dalla domenica. Nel giorno della gara ci sono delle variabili che non sono “allenabili”: l’avversario reale, l’arbitro, il pubblico che ti guarda.

In Finlandia dal lunedì al sabato è tutto perfetto e fatto con il massimo atteggiamento e volontà. L’allenamento è sacro. In Italia come in Grecia si fa invece una fatica immensa per mantenere gli stimoli, migliorare i dettagli, tenere alto il ritmo, l’attenzione e la motivazione.

Qui, le variabili della domenica riescono a perfezionare e a superare i gap e le distrazioni dell’allenamento, in Finlandia invece queste variabili vanno addirittura ad incidere su quella che è stata la prestazione media della settimana.

Se noi avessimo quella passione sempre, quella  metodologia nordica nella preparazione dell’allenamento che ci porta ad essere sempre attivi durante la settimana e la capacità mediterranea nell’interpretare il momento della gara e di leggere tutte le variabili, sarebbe un mondo perfetto.

Finlandesi dal lunedì al sabato e mediterranei la domenica.

La competizione, tuttavia, è fatta anche di regole e di gioco di squadra. Quando ho allontanato quattro giocatori di cui due importantissimi, in seguito evidentemente ad un episodio reiterato, ho preso questa decisione condividendola con la Federazione e ancor più con la squadra. Abbiamo poi giocato una partita con la Serbia a dir poco commovente. Sono ripartito dal Brasile convinto che quello sarebbe stato un punto di ripartenza, ovviamente parlando con tutti, compresi i giocatori sospesi, ma sulla base di nuove regole. Quando sono atterrato in Italia, quella condivisione non l’ho trovata più e non sono stato disponibile ad accettare che tutto diventasse negoziabile in virtù di una partita vinta in più o una partita vinta in meno nel momento in cui si sta preparando un obbiettivo ancora più importante come le Olimpiadi.

E allora ho spento l’interruttore di un modo di vedere lo sport che non ho più sentito appartenermi. A costo di perdere opportunità, di farmi dei nemici, di scontrarmi con la politica e gli interessi delle associazioni.

…laico e sacro. Morale ed etico. Ricordate?

La paura di avere porte chiuse è minore della voglia di aprire delle finestre. Sento oggi di voler mettere a frutto tutto quello che mi è successo e ho voglia di mettermi di fronte a cose che ancora non conosco e che non ho ben identificato anche se dovessero portarmi fuori dalla palestra.

Sono pronto a competere.

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