Domenico De Masi: “Il lavoro, oggi? Il trionfo autolesionista di Confindustria”

Il sociologo e professore emerito della Sapienza, intervistato da SenzaFiltro, commenta i risultati dell’Osservatorio 2023 di Fior di Risorse: “Le persone continuano a lavorare solo se il valore espressivo del lavoro è tale da spingerle all’autosfruttamento. Le imprese non vogliono più spendere un euro in formazione: chiedono tutto alla scuola pubblica”

Il sociologo Domenico De Masi

13/05/2023

 

Due italiani su tre valutano nuove opportunità professionali o sono già pronti a cambiare. Appena il 25% sostiene di non aver lasciato il lavoro negli ultimi dieci anni. Sono questi gli elementi principali emersi dall’Osservatorio pensato dalla community di FiorDiRisorse in occasione dell’ormai consueto appuntamento di Nobìlita, il festival della cultura del lavoro promosso da SenzaFiltro.

Un sondaggio che ha coinvolto 1.500 persone, di tutte le fasce d’età e con almeno un campione per ogni qualifica professionale, dai disoccupati ai dirigenti.

Decido di parlarne a ruota libera con il professor Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore emerito all’Università La Sapienza di Roma.

 

 

Professor De Masi, anche quest’indagine porta a galla il tanto discusso tema delle grandi dimissioni. Che cosa ne pensa?

Un tema che parte da lontano. D’altro canto, il lavoro ha due valenze. Una è di carattere strumentale, diciamo noi in sociologia, che ci serve per ricavare un salario, da sfruttare per le nostre priorità: comprare casa, viaggiare, costruire famiglia. Tutto ciò ci consente di giudicare il lavoro sulla base della remunerazione, oltre che su sicurezza, puntualità e durata di questa stessa remunerazione. Un tempo, per esempio, si entrava in FIAT a 18 anni e si usciva con la pensione. Oggi, invece, è uno slalom tra fallimenti di aziende, licenziamenti e mutamenti volontari.

E l’altro valore?

Lo definiamo di carattere espressivo, che poi si riferisce in gran parte all’idea di recupero dell’importanza del lavoro che offrì Marx. Il lavoro per molti secoli è stato considerato disonorevole, come sosteneva Cicerone e, quattro secoli prima, Aristotele. D’altronde, cos’era la vita per un greco libero? Curare il corpo con l’atletica, l’anima con la filosofia e, infine, la polis, attraverso la missione politica. Lavorare, perciò, voleva dire distrarsi da queste tre attività essenziali per qualcosa degno solo degli schiavi.

Certo che gli schiavi non sembrano il miglior punto da cui partire.

Però Aristotele affermava che gli schiavi servivano, in Grecia, non perché si amasse la schiavitù in modo cinico e sadico ma, traducendo con il linguaggio odierno, poiché non c’erano robot. In sostanza, se i telai tessessero da soli e gli strumenti suonassero da soli, allora non avremmo bisogno di schiavi. Questo significa che un giorno, se dovessimo sviluppare ulteriormente la tecnologia, non avremmo bisogno di lavorare – certo, a meno di deviazioni psichiche. Qui si inserisce il concetto di valore espressivo, inteso come capacità attraverso il lavoro di esprimere la nostra natura, la nostra vocazione, il nostro animo. Ora, soprattutto con la spinta del COVID-19, l’obiettivo delle persone è continuare a lavorare solo se il valore espressivo è tale da spingerle all’autosfruttamento. Uno sfruttamento su noi stessi, a fronte di un lavoro piacevole.

"Viviamo un tipo di economia organizzata per ostacolare la felicità. Ma tutta l’economia politica si basa sul cercare di soddisfare solo in parte i bisogni quantitativi, così da lasciare un rammarico che ci induce ad andare sempre oltre."
Domenico De Masi

Da direttore del personale fatico a immaginarmi, in fonderia, un operaio generico che presta servizio per il piacere di farlo.

Marx sosteneva che anche questi ruoli possono diventare espressivi. Io preferisco sottoscrivere Paolo VI, che a parer mio ha fornito la miglior definizione possibile: il lavoro non è umano se non è intelligente e libero.

Forse per questa categoria di lavoratori la valenza è solo strutturale?

Ripeto, se un lavoratore abbandona un’attività meccanica, magari rinunciando a gran parte dei propri consumi, è perché si rende conto che il suo lavoro non è intelligente né libero.

Sacrificare il sostentamento per la libertà non è strada percorribile, mi permetta.

È il bisogno che ci tiene legati al il guinzaglio. Per questa ragione dovremmo essere lungimiranti, mettere da parte un po’ di soldi, accontentarci di poche cose. Lo afferma anche la grande filosofa Agnes Heller: siamo propensi a impiegare energie e sforzi per soddisfare due tipologie di bisogni, quantitativi o qualitativi. Da un lato il potere, la ricchezza, il possesso. Dall’altro l’introspezione, l’amicizia, l’amore, il gioco, la bellezza, la convivialità. Per soddisfare i bisogni quantitativi occorrono soldi, che producono altri soldi. Per i qualitativi occorre la capacità di godere dell’amicizia o dell’amore. Cose che non costano.

Quindi secondo lei gli italiani oggi hanno maggiore consapevolezza su questi temi. Si respira aria di cambiamento?

Chiariamo, la maggioranza rimane alienata, cioè disposta a qualunque cosa pur di avere un aumento di stipendio o roba di questo genere. Per poter poi spendere questi soldi in follie consumiste, effetto tipico della politica economica liberista, dettata dal consumo opulento, tutto centrato sulla soddisfazione dei bisogni quantitativi, sui beni da ostentare.

C’è però una minoranza che si sta facendo largo.

Ne parlo nel mio libro, La felicità negata. Viviamo un tipo di economia organizzata per ostacolare la felicità, per impedire di arrivare alla soddisfazione dei bisogni quantitativi. Ma tutta l’economia politica si basa sul cercare di soddisfare solo in parte i bisogni quantitativi, così da lasciare un rammarico che ci induce ad andare sempre oltre, lavorare sempre di più, cercare sempre più carriera, per poi comprare cose che, appena acquistate, perdono valore. Questa minoranza non ha vita facile.

Uno dei motivi per cui l’Italia ha, nonostante i dati del nostro osservatorio, ancora uno dei più alti indici di anzianità lavorativa in azienda.

Non c’è dubbio, lei fa il capo del personale, è un portatore insano di questo virus. Immagino sia la persona che bada di più a chi entra e chi esce nell’impresa. Magari lei stesso lavora dieci ore al giorno.

Per fortuna no, me ne guardo bene.

Ed è la scelta giusta, perché significherebbe sottrarsi alla cultura, al cinema, al teatro, ai figli. All’amante.

O al giornalismo, per quanto mi riguarda. Più semplice che l’amante.

Se è con quello che si realizza, sì. Nel suo caso, ridurre il tempo dedicato al giornalismo significherebbe castrare i bisogni espressivi in funzione dei bisogni quantitativi.

"I navigator? Figure create da Di Maio ma abbandonate dagli stessi 5 Stelle. Una vergogna totale per la sinistra. Io sono stato l’unico intellettuale a difenderli."
Domenico De Masi

Gli strumenti di flessibilità, come lo smart working e la settimana corta, sono segnali che ci portano in questa direzione?

Sì, ma la resistenza delle aziende è patologica. L’azienda vuole avere il dipendente il più possibile in ufficio, e quando dico l’azienda dico il capo. E anche il capo del personale. Tutti malati di potere e controllo. È servito il COVID-19 per sbloccare il processo del lavoro agile. Io la chiamo sindrome di Clinton: Clinton non avrebbe mai accettato lo smart working per la sua stagista. Le pare?

Nel calderone fluido di questo mercato del lavoro rientrano anche figure che il cambiamento lo subiscono, come i navigator e i percettori del Reddito di Cittadinanza.

Tutta una follia. Abbiamo detto che un tempo un lavoratore entrava alla FIAT a 18 anni e andava in pensione a 60. Ora entra a 18, lo licenziano a 21, si becca due anni di disoccupazione, poi trova un lavoretto con la gig economy, poi la disoccupazione, poi trova un lavoro che gli piace ma la ditta fallisce. Uno slalom attraverso queste peripezie. Che cosa significa? Che per essere aiutata, questa persona ha bisogno di un punto di riferimento nel centro per l’impiego, che lo segue e lo aiuta a superare le difficoltà. Queste condizioni ci sono in tutto il mondo, con reazioni diverse da Paese a Paese. In Germania, dove pure la disoccupazione è al 3.8%, hanno assunto 111.000 persone nei CPI, li hanno dotati di tecnologia possente, spendono 12 miliardi all’anno per mantenere la macchina. Noi abbiamo una massa che non supera i 13.000 addetti e spendiamo 680 milioni all’anno. Una macchina del tutto anemica. Quindi si è pensato di assumere qualcuno in più e si è deciso per 6.000, ma le Regioni non li volevano, pertanto si è scesi a 3.000. In conclusione, entrarono 2.800 professionisti, tutti con 110 lode e inseriti in un percorso di sei mesi di formazione. Dopodiché, anziché assumerli a tempo indeterminato hanno proposto un tempo determinato triennale. Ecco la storia dei navigator. Hanno assunto triennali per trovare tempi determinati ad altri. Questi poveracci, pure, sono stati respinti da alcune Regioni come la mia, la Campania. Si sono dati da fare pur essendo considerati degli intrusi; ciononostante hanno trovato lavoro a 350.000 persone, per poi essere stati sbattuti fuori come stracci. Una vicenda che grida vendetta. Figure create da Di Maio ma abbandonate dagli stessi 5 Stelle: poi in seguito la Catalfo (ex ministra del Lavoro, N.d.R.) manco li ha ricevuti. Una vergogna totale per la sinistra. Io sono stato l’unico intellettuale a difenderli. Ma non sono il ministro del Lavoro.

E se lo fosse non avrebbe scritto il decreto del lavoro appena uscito, immagino.

Appunto.

Torno al suo pensiero con una provocazione. I NEET sono persone libere?

Dipende da come vivono. Perché se vivono del tutto asserviti ai genitori, che li assistono e mantengono perché disoccupati, allora no di certo. Nelle famiglie si consumano drammi terribili, con genitori anziani che arrivano da un’altra realtà e non riescono a capire come mai i loro figli, che magari ha 110 e lode, è senza lavoro.

Con la disoccupazione ai minimi e tutte le aziende che cercano personale.

Non c’è incontro tra domanda e offerta. Una piattaforma di incrocio c’era, ai tempi di Mimmo Parisi. Tutto sommato funzionava. L’ho detto al sottosegretario Durigon, sarebbe da recuperare.

Però con quella piattaforma le Regioni non potevano comunicare tra loro.

La si stava implementando; comunque già averla a livello regionale è un buon punto di partenza. La Catalfo peraltro non ha mai reso pubblica quella piattaforma, mai varata.

Non credo che una piattaforma sia la panacea di tutti i mali.

Non esistono panacee, esistono solo soluzioni graduali che si usano fin quando ci sono. Un’aspirina non è in grado di offrire una cura definitiva, ma può alleviare la malattia.

Va bene, rimane il fatto che alcune figure sono introvabili. I tecnici specializzati, ad esempio. Come mai?

Quando mi chiamava Adriano Olivetti, sapevo bene di non poter fornire degli ingegneri specializzati in macchina da scrivere. Ingegneri con un’ottima istruzione di base invece sì. Poi si utilizzava un anno intero per adattare il generico alle esigenze specifiche. Le aziende hanno l’obbligo di assumersi il compito dell’ultimo miglio. La scuola può fornire la base, una formazione alta ma generica. La verità è che le imprese non vogliono spendere un euro. Sono state distrutte tutte le scuole di formazione, anche per i manager. A Marentino per la FIAT, la Reiss Romoli, il centro di formazione ENI a Castel Gandolfo. Le aziende se ne fregano, ora pretendono tutto dalla scuola pubblica.

Annosa questione, cinicamente legata al margine e al bilancio.

Siamo l’unico Paese dell’OCSE con i salari più bassi di trent’anni fa. Un sicuro trionfo di Confindustria e Confcommercio. Però, mi creda, un trionfo autolesionista e miope.

 

 

 

Photo credits: lafionda.org

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