Fondamentalmente stanchi

Staccare la spina. Riposare. Rigenerarsi. Servono a questo le vacanze, a giudicare dalle parole che si usano per motivarle agli amici e ai colleghi o per attestarne la riuscita, al ritorno. Ora è il tempo del ritorno dalle vacanze estive, le più lunghe di tutte, e molti noi – stando a TGCOM24 la metà di […]

Staccare la spina. Riposare. Rigenerarsi.

Servono a questo le vacanze, a giudicare dalle parole che si usano per motivarle agli amici e ai colleghi o per attestarne la riuscita, al ritorno. Ora è il tempo del ritorno dalle vacanze estive, le più lunghe di tutte, e molti noi – stando a TGCOM24 la metà di noi – provano sintomi vari riconducibili al post-vacation blues o sindrome da rientro. Primo tra questi sintomi secondo Michele Cucchi, psichiatra del S.Agostino di Milano, il senso di stanchezza. E i sintomi sono tanto più potenti quanto più la vacanza è stata lunga e piacevole.

Ma come? Siamo venuti in vacanza per staccare, per riposarci, per rigenerarci, e prima ancora di riprendere il lavoro siamo già stanchi, stressati e preoccupati. Quasi che la vacanza stessa, paradossalmente, invece che un antidoto alla stanchezza e allo stress fosse in realtà un veleno, che provoca stanchezza e stress. Non è così.

Uno studio realizzato presso l’Università di Bologna, citato qui, afferma che la sindrome da rientro colpisce anche le persone che in vacanza nemmeno vanno. Nel loro caso, dicono i ricercatori, l’ansia e la stanchezza deriverebbero dal pensiero di dover “affrontare amici e colleghi che vorranno condividere emozioni e ricordi delle ferie appena trascorse”. La sindrome da rientro, e la stanchezza che ne deriva, sembra quindi interessare chi è andato in vacanza al pari di chi in vacanza non ci è andato. Ma cosa avranno in comune queste due classi di umani? Quale genere di stanchezza (mudigkeit, tiredness) accomuna vacanzieri e non vacanzieri, proprio alla fine delle vacanze, e cioè nel periodo dell’anno in cui, chi per una ragione chi per un’altra, meno dovrebbero sentirsi stanchi?

Byung_Chul Han, in un breve saggio giunto nel 2016 all’ottava edizione, e a cui Isabella Gressner ha dedicato un cortometraggio intitolato Essay About Tiredness, ipotizza che la causa della stanchezza tardo-moderna, cioè la nostra, sia l’imperativo della prestazione. L’attuale società della prestazione, che rappresenta l’evoluzione della novecentesca società disciplinare fatta di fabbriche, prigioni e ospedali, prescrizioni e divieti, è una società positiva, in cui all’orizzonte, negativo, del dovere e dell’obbedienza si aggiunge quello, positivo, del poter-fare di un soggetto “imprenditore di se stesso”, libero di esprimere la propria autonoma progettualità e di assecondare la propria motivazione personale.

Rispetto all’ethos, della massimizzazione della produzione, comune alle due società, l’odierno soggetto di prestazione è più produttivo del soggetto di obbedienza. Ma alle nuove condizioni, liberate da vincoli disciplinari, l’imperativo a performare diventa totalizzante e la prestazione è sola e unica misura del se’ e della propria riuscita. Così la libertà di fare si trasforma nel suo contrario cioè in un obbligo. Non meno costrittivo in quanto auto-imposto: “l’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino all’auto-sfruttamento”. Assolutizzazione della vita activa a scapito delle facoltà contemplative, questo fa la società della prestazione, e da questo deriva l’iperattività, la frenesia, la nevrosi dell’animal laborans tardo-moderno. Ci crediamo liberi in quanto attivi, ma non lo siamo, proprio in quanto (troppo) attivi: “Gli uomini attivi – scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano – rotolano, come rotola la pietra, in conformità alla brutalità della meccanica”.

Nell’iperattivismo della società della prestazione, nel paradosso della libertà di fare e di realizzare se stesso, germoglia allora la stanchezza. Peter Handke ne distingue due tipi: la “stanchezza che divide” e la stanchezza “fondamentale”. La prima è quella patita da un io infartuato dal perdurante conflitto prestazionale con le proprie aspettative ed i propri concorrenti diretti; è solitaria e sfiduciata, come l’ansia da rientro, e quindi isola e pone contro; intrisa di paura di non farcela rende incapaci di fare, come la tristezza spinoziana.

La seconda è invece una quieta ispirazione al non fare, al tralasciare, al non dominare, che non deriva dall’esaurimento delle forze fisiche e spirituali ma, al contrario, da un risoluto e cordiale disarmo dell’io. E’ una stanchezza fiduciosa del mondo, che ”rende giovane”, dischiudendo il soggetto al circostante e alle sue infinite possibilità di rigenerazione.
Cosa farcene, realisticamente.

(Provare a) arginare l’imperativo della prestazione, che minaccia oggi anche le nostre vacanze e il nostro tempo libero (bikers, runners swimmers: quanti chilometri siete riusciti a fare questa estate?). (Provare a) coltivare la stanchezza fondamentale, come naturale disposizione a indugiare, a trattenersi dall’agire compulsivo, a contemplare. Il risultato sarà meno bisogno di vacanze e quindi meno problemi (sindrome?) di rientro. Perché “Tutto – conclude Handke – nella quiete della stanchezza diventa meraviglioso”. Come ben sanno quei privilegiati che stanchi ci sono nati.

CONDIVIDI

Leggi anche

L’innovazione in bocca ai guru

Siamo tra amici, posso tranquillamente fare “coming out”. All’inizio dell’anno sono stato invitato come keynote speaker all’interno della convention annuale di una multinazionale del settore Pharma. L’evento aveva come tematica il cambiamento di scenario e l’innovazione. Nella documentazione dell’evento dedicata ai partecipanti, era indicato: Ivan Ortenzi – Guru dell’innovazione. Mi sono soffermato a pensare con una […]