Foodora: troppo bassa l’asticella a due e settanta

Due euro e settanta. È la paga percepita per ogni consegna dai rider ormai più famosi d’Italia, i fattorini della multinazionale tedesca del cibo Foodora. E se è vero che “a tutto c’è un limite”, il loro limite – quello tra lavoro e dignità – è racchiuso in questa cifra. Partendo dalla protesta delle biciclette […]

Due euro e settanta. È la paga percepita per ogni consegna dai rider ormai più famosi d’Italia, i fattorini della multinazionale tedesca del cibo Foodora. E se è vero che “a tutto c’è un limite”, il loro limite – quello tra lavoro e dignità – è racchiuso in questa cifra. Partendo dalla protesta delle biciclette rosa, ci siamo chiesti fin dove si è disposti a spingersi oggi pur di lavorare, quanto si è alzata la soglia della sopportazione, quanti i compromessi e le rinunce che si possono arrivare ad accettare.

La pedalata rosa dei riders al confine fra lavoro e dignità

Ma com’è partita la ribellione dei fattorini di Foodora? «La protesta è nata in modo spontaneo. Inizialmente – spiega a Senza Filtro il collettivo – su base informale abbiamo espresso ai manager il nostro disappunto sul trattamento che ci veniva riservato. Dopo alcune rassicurazioni e un silenzio lungo un’estate, saltò fuori la questione del passaggio da un contratto a ore a consegna. Quindi ci siamo trovati a inviare una lettera formale tramite sindacato a causa delle ripetute richieste inascoltate». Poi sabato 8 ottobre, a Torino, alcuni rider hanno deciso di dire basta in un modo che facesse rumore. Sono scesi dalla bicicletta e si sono rifiutati di effettuare le loro consegne a domicilio a 2,70 euro l’una. Da allora la protesta – raccontata sulla pagina Facebook Deliverance Project – si è estesa, raggiungendo anche Milano (dove tuttavia le condizioni di lavoro sono diverse), l’altra città dove Foodora Italia offre il servizio a domicilio, e conquistando l’attenzione mediatica. I precari in bicicletta sono diventati il simbolo delle distorsioni del lavoro a cottimo e della necessità di conservare la dignità, a prescindere se in discussione ci sia un posto fisso o un semplice “lavoretto”.

I riders – al grido di “Foodora et labora” – chiedono il ritorno ad una remunerazione su base oraria (in Francia, ad esempio, è di 7 euro all’ora più 2 euro di bonus a consegna); convenzioni sulle spese di manutenzione delle biciclette, totalmente a carico dei lavoratori; copertura mutualistica in caso di malattia. L’azienda, attraverso un comunicato ufficiale che i fattorini si sono visti recapitare a mezzo newsletter, ha formulato una controproposta: aumento della paga a consegna a 4 euro lordi; convenzioni per riparazioni delle bici (sconto del 50% sul listino prezzi) e creazione di un sistema di messaggistica interno per la logistica di turni e consegne. Un’offerta avvertita come “un contentino” dagli organizzatori della protesta, che denunciano i metodi dell’azienda: «Trattare i propri collaboratori come se fossero meri strumenti da usare a proprio vantaggio, senza alcun rispetto, è spaventoso. Proprio in questo momento – ci dice il collettivo, mentre sta organizzando una cena di supporto alla protesta – ci scorrono sotto gli occhi testimonianze di colleghi che fino a poco fa erano in servizio e ai quali ora non vengono più assegnati turni. La flessibilità non esiste in questo caso, è falsa». L’azienda ha infatti escluso dal gruppo Whatsapp per la gestione dei turni alcuni di loro, colpevoli di aver denunciato le condizioni di sfruttamento. Il 24 ottobre i riders di Torino sono stati ascoltati in Commissione lavoro presso il Comune del capoluogo piemontese. Un’audizione alla quale i dirigenti di Foodora erano stati invitati, ma che hanno disertato, ufficialmente per un contemporaneo incontro con il Ministero del lavoro: e così ancora una volta è saltato il confronto diretto con le voci della protesta.

Diritto al lavoro vs diritto alla salute, la vicenda delle Fonderie Pisano

Spostandoci a Sud, a Salerno, troviamo una protesta di tutt’altro tenore. Qui i dipendenti delle Fonderie Pisano sono scesi in piazza per difendere il proprio diritto ad andare a lavorare. E in gioco c’è un altro limite tra i più delicati da tracciare: quello tra il diritto al lavoro, appunto, e il diritto alla salute. “Non inquiniamo, ma non lavoriamo. Vergognatevi”, recita uno striscione. Gli operai ce l’hanno con la magistratura e con il Comitato Salute e Vita. Dal 24 giugno scorso la fabbrica è infatti sotto sequestro per scarico di acque reflue inquinanti; gestione illecita di rifiuti speciali anche pericolosi; emissioni nocive in atmosfera (fino a dodici volte i livelli consentiti per legge); danneggiamento di beni pubblici (il fiume Irno, posto in zona sottoposta a vincolo di tutela); violazione della normativa antincendio e delle leggi relative alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Un altro filone di inchiesta riguarda il reato di omicidio colposo plurimo: la magistratura in questo caso sta analizzando le cartelle cliniche di 45 morti sospette, per capire se possano essere riconducibili alle polveri emesse dallo stabilimento industriale. Dopo il nuovo rigetto da parte del Gip dell’istanza di dissequestro, i legali delle Fonderie Pisano hanno presentato ricorso al Tribunale del Riesame, chiedendo la riapertura controllata dello stabilimento. L’azienda sostiene che, dopo i lavori di messa in sicurezza, ci sono le condizioni per riprendere le attività. Questo in attesa della delocalizzazione, che si sta rivelando però particolarmente complicata per la difficoltà di trovare un accordo sul nuovo sito. «Per trasferirsi ci vorranno almeno tre anni, nel frattempo i 120 dipendenti della fabbrica rischiano il licenziamento», spiega Anselmo Botte, segretario della Cgil Salerno. Così i lavoratori si sono schierati dalla parte dell’azienda, accettando i rischi che ciò potrebbe comportare.

Dall’altra parte c’è il Comitato Salute e Vita, nato nel 2004 per far luce sui danni alla salute dei cittadini causati dallo stabilimento. «È quello che succede in tutta Italia: è il ricatto del lavoro. Noi riteniamo che il diritto alla salute sia prevalente e che non possa essere barattato per il lavoro», dice a Senza Filtro Lorenzo Forte, presidente del Comitato. Che denuncia una grande omertà sulle conseguenze dell’impatto ambientale della fabbrica. «Diverse decine di operai si sono ammalati. Attualmente c’è un lavoratore di 41 anni di Sarno che ha un cancro ai polmoni, ma non lo vuole dire. A dicembre 2015 il figlio di un operaio mi chiamò perché il padre stava morendo di cancro e anche il fratello era malato. Oggi ci accusano di “complotto” e di aver pagato le persone in cambio delle 1.500 firme per l’esposto sulle esalazioni delle Fonderie». Al Sud, più che altrove, la soglia del limite a cui si è disposti ad arrivare per il lavoro talvolta è molto alta, tanto quanto può esserlo il costo da pagare.

La conciliazione fra tempi di lavoro e di vita, il caso Magneti Marelli

Ma oggi si parla spesso anche di un altro limite, che ha a che fare con la tutela della qualità della vita: quello fra lavoro e vita privata. Un limite che diventa sempre più difficile da segnare, in quanto le coordinate spaziali e temporali appaiono oggi più che mai labili. Alla Magneti Marelli di Crevalcore, in provincia di Bologna – 330 lavoratori fissi e 66 interinali – questo mese la Fiom ha indetto una serie di scioperi, con adesione fino al 100%. Il motivo è la modifica della turnistica – con l’introduzione dei 18 turni e dei sabati straordinari – imposta dall’azienda per far fronte all’aumento di commesse. Esaurito il “monte ore” degli straordinari, la Magneti Marelli ha infatti deciso di spalmare il riposo su tutti i giorni della settimana, con il risultato che ogni dipendente il cui reparto è interessato dalla salita produttiva deve lavorare cinque sabati su sei, a parità di salario. Un’azienda che, in tempi di crisi, risulta essere in uno stato di forma (tanto da far gola alla Samsung) non può che rappresentare una buona notizia. Eppure i lavoratori sentono di viverne solo gli svantaggi. Uno su tutti, la tanto evocata conciliazione fra tempi di vita e di lavoro. La proposta della Fiom – dice a Senza Filtro il responsabile nazionale Auto Fiom-Cgil, Michele De Palma – è quella di «cercare una soluzione condivisa, che può essere una riduzione delle ore e un adeguamento salariale per conciliare i tempi di lavoro con i tempi privati».

«Lo stabilimento – ci spiega il responsabile della struttura la Fiom, Mimmo Lisi – ha un forte tasso di persone immigrate dall’estero e dal Sud nonché il 20% di donne. Lavorare il sabato significa quindi disagi per le famiglie, che non sanno a chi lasciare i figli perché la famiglia è lontana». Ma il problema non risiede esclusivamente nella turnistica: «La produttività non si fa solo con le persone. Abbiamo presse del 1970 – aggiunge Lisi – e i reparti non sono organizzati per fare 18 turni. La nostra è una protesta per far capire al mondo del lavoro che senza investimenti non si va avanti. Che i lavoratori sono una risorsa non solo quando conviene e devono intervenire nei processi di cambiamento». La direzione per ora ha firmato un verbale d’intesa con Cisl e Uil (gruppo Fca), in cui si parla di futuri investimenti, stabilizzazioni e assunzioni. «Siamo stati esclusi dal tavolo e non è possibile che qualcuno firmi senza un accordo universalmente condiviso», lamenta il responsabile Fiom dello stabilimento. Anche qui il bilanciamento dei diritti appare ancora una chimera.

Lavorare per vivere o per non vivere, dunque?! I tre casi analizzati ci confermano quanto oggi sia relativo il limite fino al quale si è disposti a spingersi, da un lato per non rinunciare al lavoro come fonte di sostentamento e di vita e, dall’altro, per preservare altri fondamenti della vita stessa quali dignità, salute e famiglia.

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