La marcia messicana verso il sogno americano

Sono oltre 40mila i lavoratori messicani che ogni anno attraversano il confine che separa il Messico dagli Stati Uniti per raggiungere il proprio posto di lavoro. A mobilitarli, la promessa di una remunerazione più vantaggiosa ma anche le molteplici possibilità d’impiego, quasi del tutto assenti nel loro Paese di origine, e soprattutto la speranza di […]

Sono oltre 40mila i lavoratori messicani che ogni anno attraversano il confine che separa il Messico dagli Stati Uniti per raggiungere il proprio posto di lavoro. A mobilitarli, la promessa di una remunerazione più vantaggiosa ma anche le molteplici possibilità d’impiego, quasi del tutto assenti nel loro Paese di origine, e soprattutto la speranza di condizioni di vita migliori.

Secondo il dossier Prospettive per l’Impiego 2016 ed Uguaglianza di Genere nell’Alleanza del Pacifico risulta, infatti, che il tasso di disoccupazione in Messico è in continuo aumento, e a questo si aggiungono i notevoli tagli perpetrati sui salari a causa della crisi economica che da anni affligge le imprese messicane e che tra 2007 e 2015 ne ha visto un decremento del +1%. Già nel 2007 il tasso di disoccupazione era passato dal 3,5% al 4,2% tra il secondo e il quarto trimestre; nel 2017, secondo dati Trading Economics si è passati dal 3,5% di maggio al 3,6% di giugno, con un incremento del +0,1% al mese: dati sconcertanti, se si pensa che l’economia messicana si distingue nel panorama latino-americano per la sua stabilità, con un buon andamento dei consumi interni, degli investimenti e delle esportazioni, tanto da essere annoverato tra i Paesi emergenti.

L’asse Cina-America Latina e l’impasse del Messico

Fa riflettere, a questo proposito, il dato di Infomercatiesteri secondo cui il Messico, Paese membro del G20 e dell’OCSE, vanta una tra le manodopera più giovani e specializzate al mondo, con una costante creazione d’imprese e l’istallazione in aree strategiche di parchi tecnologici altamente sofisticati. «Nonostante l’economia messicana si distingua nel panorama latino-americano per la sua stabilità, i livelli di crescita del Paese centro-americano sono ancora troppo bassi per far fronte alla diffusa povertà. Il Messico non ha tratto profitti, come hanno fatto altri Paesi, dalla crescita economica cinese, quindi l’attuale rallentamento del colosso asiatico non ha potuto influire sulle politiche economiche del Messico», commenta James Garber, ordinario di Economia presso la San Diego State University ed esperto in studi sull’Economia latino-americana e sulle relazioni tra Messico e Stati Uniti. 

In effetti la Cina degli ultimi anni non solo ha rafforzato il suo peso nell’economia globale – diventando, di conseguenza, uno dei principali motori economici – ma ha anche prestato ingenti somme di denaro a Paesi esteri, in particolare agli Stati Uniti, di cui detiene circa 1.120 miliardi di debito pubblico (nonostante una diminuzione nel 2017 di 41,3 miliardi di Treasuries, Titoli di Stato emessi da Washington, n.d.r.) e posizionandosi, pertanto, come secondo grande creditore statunitense. Tuttavia, nonostante l’interdipendenza delle relazioni economiche cino-statunitensi, i rapporti conflittuali esistenti fra due antitetiche realtà e due differenti modi di considerare l’economia di mercato, ha fatto sì che i rapporti commerciali siano stati coltivati soprattutto lungo l’asse Cina-America Latina.

L’America Latina rappresenta per la Cina un importante fornitore di materie prime, nonché un mercato dove esportare prodotti finiti. Ma se da un lato le relazioni esistenti tra Cina e centro-sud America risultano ottimali, specialmente per il dragone rosso, dall’altro si può facilmente constatare come le opportunità per i Paesi latino-americani siano concentrate soprattutto in quelle nazioni che beneficiano di una grande domanda e degli alti prezzi dei prodotti che esportano. Per economie regionali come il Messico, invece, ha prevalso una politica di concorrenza interna, che rapportata all’attuale rallentamento della crescita economica cinese — dovuto in particolare alla diminuzione del surplus commerciale e delle esportazioni a causa della crisi economica che si è abbattuta sull’Europa, mercato principale per la vendita dei prodotti Made in China — non ha influito né in positivo e né in negativo sulle politiche economiche del Messico.

I transmigranti e il grande “sogno americano”

Se a livello macroeconomico l’impasse della Cina lascia il Messico ancorato stabilmente alle classifiche dei Paesi emergenti, lo sviluppo economico del Paese non risulta sufficientemente avanzato. Ma è solo questa la ragione che spinge la manodopera specializzata messicana a scegliere di lavorare per aziende statunitensi, perpetrando un  perenne pendolarismo?

«Non possiamo dire molto riguardo al fenomeno dei transmigranti, ossia di tutti quei lavoratori messicani che, pur risiedendo in Messico, attraversano il confine legalmente, per lavorare negli Stati Uniti», prosegue Garber. «I dati, sia qualitativi che quantitativi a nostra disposizione sono pochi; però, pur non potendo quantificare questo fenomeno, possiamo senza ombra di dubbio affermare che il reddito da prodotto da questi lavoratori incide positivamente sull’economia messicana».

Nonostante ciò, il fenomeno è tutt’altro che stabile. «I transmigranti messicani erano molto più numerosi negli anni Ottanta: il fenomeno ha subìto una battuta d’arresto in epoca più recente, soprattutto da quando sono state rese più severe e restrittive le norme statunitensi sull’immigrazione», fa eco Catalina Amuedo-Dorantes, docente di Economia alla San Diego State University ed ex presidente dell’American Society of Hispanic Economists (ASHE).

«Secondo i dati a nostra disposizione, i numeri della transmigranza sono attualmente molto bassi; tuttavia, è stato stimato che, a dispetto delle cifre diffuse, questo fenomeno non ha cessato d’esistere; tutt’altro, se si tiene conto che fra i transmigranti vengono annoverati tutti quei ragazzi che attraversano giornalmente il confine per frequentare scuole statunitensi», prosegue l’economista.

È necessario considerare, poi, che queste cifre riguardano solo la cosiddetta “immigrazione legale”, perché se si dovessero analizzare i dati di quanti, da decenni, cercano di attraversare con ogni mezzo il confine Stati Uniti-Messico nella speranza di condizioni di vita migliori, i numeri muterebbero vertiginosamente. Secondo un’inchiesta diffusa da “la Repubblica è stimato che solo tra il 1994 e il 2016 sono oltre 6mila le persone decedute nel tentativo di arrivare negli Stati Uniti. Questi dati sono lo specchio di un fenomeno che ha radici molto profonde e che trova le sue fondamenta negli anni Venti del secolo scorso, quando per milioni di messicani provvisti di Green Card si materializzò il miraggio del “grande sogno americano”. La speranza soprattutto di una migliore retribuzione è stata la molla che ha spinto la stragrande maggioranza dei messicani a trasferirsi negli Stati Uniti e che ha portato quasi ad una mitizzazione del Paese visto come una sorta di Eldorado.

Le “buone politiche” americane

Questa visione risulta tuttavia a tratti ingannevole, se non addirittura utopica, se si pensa che, secondo Garber, il salario è sì maggiore rispetto a quello del Paese d’origine (+8%) ma è di molto inferiore rispetto a quello di un lavoratore americano con le stesse mansioni. Il tutto, se rapportato al costo della vita di gran lunga maggiore negli Stati Uniti, rende l’idea di quanto la trasmigrazione possa essere una medaglia dalla doppia faccia e dagli esiti non sempre felici. Inoltre, se si prendono in considerazione le attuali politiche del neo presidente U.S.A. Donald Trump e come queste stanno influendo in modo drammatico sulle relazioni con il Messico — anche dal punto di vista diplomatico — ci si rende conto che la questione è destinata ad assumere sfumature sempre più nette.

È di poche settimane fa la dichiarazione del ministro degli Esteri messicano Louis Videgaray, secondo cui i rapporti con Washington sono “In una fase chiave e delicata” dato che, a detta del diplomatico, “Non sono possibili decisioni unilaterali da parte degli Stati Uniti”.

«Le politiche di Trump sono negative sotto ogni punto di vista. Questi provvedimenti non andranno a colpire i transmigranti in modo diretto, dato che la loro migrazione avviene in modo regolare, ma di sicuro renderà molto più tragico e pericoloso il tentativo di quanti, ogni giorno, cercheranno di varcare illegalmente il confine», conclude Garber che, d’accordo con Amuedo-Dorantes, riconosce la drastica diminuzione di questo fenomeno, dovuto soprattutto al ricambio generazionale.

E nel frattempo, anche le migrazioni “illegali” diminuiscono. Motivo di questa riduzione è anche la pericolosità del tragitto che i migranti sono costretti a percorrere per raggiungere gli Stati Uniti. Uomini e donne abbandonati nel deserto senza né acqua né cibo, costretti, addirittura, a bere le proprie urine pur di sopravvivere o, se si è più fortunati, a scavare sotto terra per cercare le provviste lasciate appositamente da organizzazioni umanitarie volontarie non governative come  il Grupo Beta dell’Instituo Naciònal de Inmigracion messicano, addestrato a prestare soccorso immediato ai migranti, in qualsiasi condizione climatica e ambientale. A farne le spese, spesso, sono anche i bambini che, più fragili, non riescono a sopportare le condizioni di vita precarie di una tratta così lunga e massacrante. E proprio per cercare di arginare questo fenomeno, il Presidente del Messico Enrique Peña Nieto si rivolge ai giovani messicani: un esercito di oltre 36 milioni di under 35, cercando di frenarne i flussi migratori — e transmigratori — che sta portando alla perdita di risorse, fondamentali per la crescita autonoma del Paese. Ma anche di fronte alla svalutazione di quel capitale umano che, se adeguatamente valorizzato, potrebbe essere in grado di risollevare le sorti di un Paese economicamente in crescita ma socialmente agonizzante.

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