Liberalizzazioni e ordini professionali: tutti i danni e qualche rimedio

Le liberalizzazioni da anni rappresentano il pomo della discordia tra filo e anti liberisti. Per gli uni rimangono il nodo irrisolto nel mercato produttivo italiano, per gli altri invece ne sono la rovina. Il meccanismo della libera concorrenza si inceppa ancor più quando si relaziona alle professioni impropriamente definite “ordinistiche”, quelle regolamentate dal diritto amministrativo. […]

Le liberalizzazioni da anni rappresentano il pomo della discordia tra filo e anti liberisti. Per gli uni rimangono il nodo irrisolto nel mercato produttivo italiano, per gli altri invece ne sono la rovina. Il meccanismo della libera concorrenza si inceppa ancor più quando si relaziona alle professioni impropriamente definite “ordinistiche”, quelle regolamentate dal diritto amministrativo. In questi casi si innescano diatribe esacerbate da provvedimenti legislativi che non hanno per nulla chiarito il rapporto tra regime concorrenziale e monopolio dello Stato.

«I professionisti sono una galassia decisiva in una società economica segnata dallo sviluppo di servizi e conoscenza» sottolinea Carlo Carboni, docente di Sociologia economica presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” di Ancona. «Da più parti – prosegue l’esperto – si è osservato che l’attuale regolamentazione dei servizi professionali lascia ancora spazio a interessi corporativi rivolti a limitare la concorrenza nel mercato del lavoro dei professionisti o a ridurre i professionisti in entrata».

«Altri hanno osservato che solo recentemente è stato fatto qualche timido passo in avanti nella regolamentazione per valorizzare il punto di vista del consumatore (e della collettività) piuttosto che quello spesso corporativo degli ordini.  Un’altra critica che ha avuto eco mediale – anticasta – è che gli ordini professionali si riproducono con modalità cetuali parentali» continua l’esperto.

«Non pochi autori hanno sottolineato che tra il 40% e il 70% dei professionisti (dipende ovviamente dalla professione) svolge la stessa professione paterna. Hanno cioè sottolineato il nepotismo, che fa anche rima con clientelismo. Penso che gran parte di queste e altre obiezioni siano del tutto o in parte condivisibili e ormai datano circa 70 anni dai tempi delle critiche agli ordini professionali da parte di Einaudi» precisa Carboni.

Sebbene alcuni passi in avanti siano stati compiuti, il cammino verso un’autentica liberalizzazione che svincoli da determinati corporativismi le professioni – soprattutto quelle tecniche e intellettuali – è ancora lungo e tortuoso.

Carboni: «Avvocati e ingegneri trentenni lamentano scarse retribuzioni»

L’ultima legge sulla concorrenza, entrata in vigore lo scorso agosto, coinvolge soltanto le società professionali, corporative o di capitali riferite ad avvocati, notai, ingegneri, agrotecnici, professioni odontoiatriche e farmacisti, seppur con misure molto più blande rispetto a quelle prospettate nelle prime bozze del disegno di legge. Nelle ultime bozze, quelle definitive, è stata stralciata la materia relativa ad alcune professioni, come commercialisti, architetti (su cui si dovrebbe intervenire anche in materia di equo compenso) e professioni sanitarie (medici, infermieri etc.). L’aspetto relativo all’equo compenso è forse quello di cui il provvedimento è più carente.

Secondo lo studioso Carboni, sebbene l’ultimo testo di legge abbia introdotto alcune importanti novità, servirebbe «una vera riforma quadro che si ponga in ascolto anche di quella parte consistente di esperti, studiosi o opinionisti assai critici nei confronti degli ordini professionali».

Inoltre, dice il sociologo esperto di economia, «sarebbe necessario riflettere su una maggior concorrenza, ma soprattutto sulla produttività delle varie professioni, particolarmente depresse in alcuni ambiti professionali importanti come quello degli avvocati. Le basse retribuzioni di cui si lamentano avvocati e ingegneri trentenni e quarantenni dipendono, più che dalla concorrenza, dalla produttività, che è poi l’elemento che maggiormente si connette alla retribuzione, alla qualità e alla dinamicità nel mercato delle professioni».

Decreti sulle liberalizzazioni inefficaci

L’argomento “liberalizzazioni” ha destato nel corso degli anni un dibattito molto accesso, con posizioni anche divergenti fra loro. Secondo alcuni esperti, decreti come quelli varati dai governi BersaniLetta e Monti hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco, aprendo la strada alla selvaggia deregulation di cui tanto si parla negli ultimi anni. La stessa che ha portato paesi orientali come la Cina a fare concorrenza sleale al mercato italiano, soprattutto nel settore manifatturiero, nel commercio e nella lavorazione delle materie prime.

Secondo altri dal 2011 sono stati compiuti dei piccoli passi in avanti per liberare il mercato dai poteri corporativistici, ma si tratta di misure del tutto insufficienti se si procede nella direzione di una piena concorrenzialità. C’è chi invece sostiene che la frammentazione del mercato sia stata provocata proprio dall’eccessiva concorrenza, frutto della disgregazione dello Stato di diritto.

Autorevoli centri studi sostengono che le liberalizzazioni andrebbero incentivate. Ad esempio, l’Istituto Bruno Leoni in un dossier del 2016 ha evidenziato quanto nel nostro paese il mercato del lavoro abbia un indice di liberalizzazione ancora piuttosto basso, pari a 5,04 dal punto di vista della performance, in relazione a un punteggio che oscilla da 0 a 10.

Si legge nel documento che “rispetto all’indicatore performance, l’Italia si conferma terzultima, immediatamente prima della Spagna e della Grecia. Il mercato del lavoro italiano rimane molto debole, come detto, con un’altissima percentuale di disoccupati a lunga durata e con una disoccupazione giovanile fra le più alte d’Europa”.

A questo si aggiunge la “mancanza di interventi di riduzione del nucleo fiscale”, in un paese i cui valori riferiti alle aliquote “si confermano tra i più alti d’Europa”.  Nell’ultimo documento DEF 2017 è prevista per il 2018 una riduzione del cuneo fiscale, a dispetto però di una mancato riesame delle aliquote IRPEF.

Fuori dalla metrica dei parametri statistici, questi provvedimenti alquanto dubbiosi rischiano di innescare meccanismi corrosivi del cosiddetto “libero mercato” che inevitabilmente si ripercuotono anche sulle professioni regolamentate dal diritto civile e ordinate da albi e collegi territoriali, sui quali gli ultimi interventi di liberalizzazione da parte dello Stato hanno avuto effetti fallimentari e deleteri.

I fallimenti delle liberalizzazioni

Per Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, le tanto decantate liberalizzazioni hanno fallito in quanto «tutte le tariffe che dovevano ridursi di prezzo grazie al processo di apertura alla concorrenza, invece di diminuire, sono aumentate più dell’inflazione, contribuendo a impoverire le famiglie e riducendo la competitività delle nostre imprese, costrette a pagare bollette e servizi molto più gravosi rispetto al resto d’Europa. Uno spread di cui nessuno si occupa» argomenta l’avvocato.

«Le liberalizzazioni sono l’unica occasione per aiutare le famiglie ad arrivare alla fine del mese, senza aggravare i nostri conti pubblici, rilanciando la capacità di spesa degli italiani. Basterebbe decidere di stare, per una volta, dalla parte dei consumatori» prosegue il presidente di UNC.

«La legge sviluppo del 2009, ossia la legge n. 99 del 23 luglio 2009, prevede che ogni anno si faccia una Legge annuale per il mercato e la concorrenza, tenuto conto anche delle segnalazioni trasmesse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e della sua relazione annuale. Peccato che poi il legislatore le disattenda sistematicamente. Anche sull’annuale, c’è da sorridere» indica Dona.

«La legge entrata in vigore in agosto rappresenta la prima volta in cui si è cercato di dare attuazione a quell’obbligo e ci sono ci sono voluti la bellezza di 30 mesi – 894 giorni, per la precisione – per vararla; un tempo biblico durante il quale il Parlamento ne avrebbe dovute votare ben tre, di leggi annuali» aggiunge Massimiliano Dona.

«Interi capitoli della segnalazione dell’Antitrust sono spariti dalla circolazione in un batter d’occhio, come quello del traporto pubblico non di linea. È bastata una protesta dei tassisti perché l’allora ministro Lupi ritirasse il capitolo dal disegno di legge sulla concorrenza prima ancora di presentarlo al Consiglio dei ministri. Una ritirata strategica» precisa il Presidente dell’Unione Nazionale Consumatori.

Sapelli: «Monopolio privato peggiore di quello pubblico»

«Prima delle liberalizzazioni c’erano dei monopoli che funzionavano benissimo» sottolinea Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università Milano Bicocca. Un flop annunciato in partenza quello delle liberalizzazioni che, come afferma l’economista, non tiene in conto quanto affermato dalla teoria economica americana di Oliver Williamson, ossia che durante una transazione non sia possibile effettuare un contratto completo tra le parti, a causa di innumerevoli e imprevedibili fattori che possono subentrare, come gli elevati costi della contrattazione.

Cavalcando l’onda dell’inflazione, il dominio dei poteri statualistici non solo sui colossi aziendali che operano nei servizi energetici e nelle infrastrutture, ma anche sulle libere professioni, nel corso degli ultimi dieci anni, ha soffocato la sana iniziativa privata, fomentando il coinvolgimento delle multinazionali e di alcune lobby di potere che intendono mettere mano sul mondo del lavoro e accaparrarsi grosse fette di investimenti pubblici.

«La complicità del potere politico e della nuova classe dirigente, sia di destra che di sinistra, aveva già smembrato grandi aziende come Enel, sottraendole al monopolio statale, e ora sta distruggendo le piccole e medie imprese» infierisce lo storico ed economista. Un altro grande potere che ha inciso nel corso degli anni sulle regole del cosiddetto “libero” mercato produttivo è la magistratura, che rappresenta il nuovo paradigma dominante capace di incidere anche sugli assetti professionali, in quanto nel far rispettare la grande proliferazione di leggi diventa parte in causa nella disgregazione dello Stato.

«È la teoria economica che lo dimostra: un monopolio privato è peggiore di quello pubblico», incalza il docente. Lo stesso meccanismo di depredazione è stato inflitto anche alle professioni sottoposte alla vigilanza dello Stato e regolamentate dal diritto civile. Alla parola “liberalizzazione” oggi è associata la parola “privatizzazione” proprio perché vi è una totale assenza di garanzia nel controllo della gestione dei servizi pubblici, che si ripercuote negativamente anche sulle cosiddette “professioni liberali”, protette o meno da ordini e albi professionali.

Sapelli: «Gli ordini professionali non vanno aboliti»

Sempre secondo Sapelli, gli ordini professionali non devono essere aboliti in quanto «garantiscono la correttezza e il controllo sulle persone, che per svolgere la libera professione devono aver superato determinate prove ed esami. Nessuno può fare il tassista se non ha fatto l’Esame di Stato». Questo a dispetto di quanti sostengono che gli ordini siano un ricettacolo di corporativismi, o quanto meno di interessi autoreferenziali.

Facendo un confronto tra il quadro legislativo italiano e quello degli altri Paesi europei, secondo lo studioso emerge che «i paesi più civili sono quelli anglosassoni, regolamentati dalla Common Law, ossia l’Inghilterra e l’America. Questi paesi non hanno avuto bisogno di un codice odioso come quello napoleonico, o quello messo in piedi da Santi Romano o da Alfredo Rocco. In Italia invece la proprietà prevale sullo Stato».

Dona: «Gli ordini professionali vanno riformati»

«In Italia troppo spesso le novità introdotte da qualcuno vengono successivamente annacquate da chi viene dopo. O disattese», spiega Massimiliano Dona.

«A ogni cambio di ministro, di maggioranza di governo – rimarca il presidente UNC – si fa a gara a disfare quello che hanno fatto i predecessori, e le lobby sconfitte una tantum, prima o poi, si prendono la rivincita. Basti pensare alle continue modifiche in materia di patto quota lite oppure di tariffe minime, eliminate ma poi di fatto rientrate dalla finestra sotto forma di parametri forensi che, come sostenuto dall’Antitrust, sono diventati valori di riferimento per i professionisti nella determinazione del compenso e si prestano a svolgere lo stesso ruolo delle precedenti tariffe» rileva Dona.

«Gli ordini professionali, che non vogliamo abolire ma riformare, in alcuni casi mirano più a tutelare la categoria che non gli utenti, come se fossero un sindacato, garantendo la qualità delle attività svolte dai professionisti, la correttezza deontologica e svolgendo le funzioni disciplinari.»

Attorno alle professioni regolamentate dal diritto civile ruotano una serie di archetipi, stereotipi e preconcetti che andrebbero sfatati o viceversa confermati solo in parte. «Il primo è che siano troppo cari. Non sempre è così, ma di certo non sono convenienti. Il problema è che all’interno della stessa categoria professionale nessuno si fa davvero la guerra. A nessuno conviene iniziarla. Le parcelle, quindi, sono ancora troppo spesso simili e allineate. Il secondo è che non vi sia abbastanza trasparenza. In effetti, come riuscire ad avere un preventivo e capire prima quanto ti verrà a costare una consulenza è uno dei tanti misteri irrisolti del nostro Paese. Il terzo è che sono degli incompetenti, ma anche se le mele marce e gli incapaci abbondano in ogni categoria, questo è l’unico luogo comune che mi sento di sfatare» chiarisce Massimiliano Dona.

Avvocati e notai: i principali punti della nuova legge sulla concorrenza

La nuova legge sulla concorrenza, approvata definitivamente ad agosto dal Parlamento, introduce alcune novità su avvocati e notai. Si concentra molto sull’esercizio della professione forense in forma societaria, contemplando le cosiddette “società per avvocati”, ossia quelle “società di capitali” o “società cooperative i cui soci siano avvocati iscritti all’albo”.

«La conseguenza delle liberalizzazioni sugli avvocati e sui notai è che questi professionisti vengono trasformati in burocrati che perdono più tempo per fare un preventivo che per svolgere la loro professione» evidenzia Sapelli.

Secondo lo studioso, lo Stato interviene a gamba tesa seguendo logiche che non gli competono nel rapporto di fiducia tra il cliente e il professionista. Analogo ragionamento ridondante può essere fatto sulle “società tra professionisti” dell’ingegneria, verso cui la legge prevede “la comunicazione obbligatoria dei compensi da parte dei professionisti nei confronti dei clienti.

«Libero accesso ed eliminazione del numero chiuso»

Il legislatore ha posto l’accento su alcune precise disposizioni in merito alla stesura del preventivo per ogni singola prestazione professionale.

Nel testo della legge n.124/2017 si desume che “il compenso dell’avvocato è, di regola, pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico” e che può essere stabilito “a tempo, a forfait, per convenzione, o essere basato sull’assolvimento e sui tempi di erogazione della prestazione, erogato per singole fasi o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare”.

«Gli avvocati dovranno comunicare al cliente il preventivo scritto» spiega Massimiliano Dona,. «Ma già prima nella legge era scritto “il professionista deve rendere noto” e “la misura del compenso è previamente resa nota al cliente”. Ora si aggiunge: “obbligatoriamente, in forma scritta o digitale”. Insomma, si è partorito un topolino. Basterà una parola perché l’obbligo sia finalmente rispettato? Vedremo», chiosa l’avvocato giuslavorista.

Inoltre, per i notai, sono previste nel testo di legge modifiche per quanto riguarda la distribuzione delle sedi notarili, con un abbassamento della soglia demografica dei distretti territoriali, da 7.000 a 5.000 abitanti. Altra novità è l’estensione delle competenze territoriali al “distretto della Corte di Appello in cui si trova la sede assegnata”, ma anche “in tutto il territorio in cui si trova la sede notarile”.

«Un fatto positivo è l’ingresso dei nuovi notai, considerato che gli entranti devono conquistare nuovi clienti e questo potrebbe consentire una riduzione delle loro parcelle» argomenta il presidente UNC. «Il problema, però è che se si vuole una vera concorrenza, per ogni professione, previa verifica dei requisiti e della competenza, ci vorrebbe il libero accesso e l’eliminazione del numero chiuso. Quindi, quanto deciso non basta».

«Le società di capitale potranno controllare le farmacie, ma dovranno rispettare un tetto del 20% su base regionale. Positivo l’ingresso di nuovi soggetti nel settore, ma decisamente negativo il tetto troppo elevato del 20%, che, in teoria, potrebbe consentire a livello locale di formare posizioni dominanti. Noi avevamo chiesto di dimezzarlo al 10 per cento e avremmo preferito fosse su base provinciale.»

«Farmacisti, ridotti a semplici “venditori”»

La nuova legge sulla concorrenza interviene con provvedimenti come la “rimozione del limite delle quattro licenze” e il “divieto di controllo diretto e indiretto da parte di un medesimo soggetto di una quota superiore al 20% delle farmacie della medesima regione o provincia autonoma”, con pene che vanno fino alla diffida dal possesso della licenza. È prevista, tra le altre misure, anche la possibilità “per i titolari delle farmacie ubicati in territori che hanno una popolazione inferiore ai 6.600 abitanti, di ottenere trasferimenti territoriali presso Comuni della medesima regione”.

«Mi pare che le ultime riforme non abbiano portato ad un miglioramento nella gestione del rapporto tra il farmacista e il cliente/paziente. Sul discorso relativo alla ereditarietà delle licenze invece ritengo che questo sia un luogo comune da confermare. Se si ha una licenza non vedo perché non si debba trasmetterla ai propri figli, quello è un investimento» incalza Sapelli.

Quella dei farmacisti è una categoria professionale molto discussa nel corso degli anni: tacciati di corporativismi, chiusure, familismi e appunto ereditarietà delle licenze, nonché di prezzi troppo alti su certi farmaci.

Per lo studioso Sapelli «tra i principali luoghi comuni vi è l’idea che il farmacista debba poter vendere cosmetici e prodotti di bellezza, come se fosse un commerciante. Io sono stato abituato a chiamare il farmacista con l’appellativo “dottore”, e suppongo che una persona che consegua una laurea in farmacia si senta tale. Oggi invece le farmacie sono diventate dei supermercati», conclude il docente.

 

(Photo credits: unsplash.com/Jose Fontana)

 

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