Paese che vai, strategia che porti

Guardare al di là dei propri confini nazionali. Sembra essere questa la ricetta anti-crisi adottata dai calzaturieri, secondo lo “Shoe report 2015” di Assocalzaturifici. Un settore che ha saputo tenere le redini, elaborando nuove strategie, a fronte di un calo dei consumi interni non indifferente. «Il settore calzaturiero si è allineato a quello della moda» […]

Guardare al di là dei propri confini nazionali. Sembra essere questa la ricetta anti-crisi adottata dai calzaturieri, secondo lo “Shoe report 2015” di Assocalzaturifici. Un settore che ha saputo tenere le redini, elaborando nuove strategie, a fronte di un calo dei consumi interni non indifferente. «Il settore calzaturiero si è allineato a quello della moda» spiega Silvio Cardinali, docente di Marketing, Comunicazione e Sales Management presso l’Università Politecnica delle Marche e la LUISS Business School.

«La filiera del fashion è profondamente cambiata negli ultimi 30 anni. Innanzitutto, sono profondamente cambiati i canali distributivi. Molte imprese si sono sviluppate non più solo con investimenti diretti ma anche attivando delle partnership internazionali attraverso franchising e accordi di distribuzione estera. Da questo punto di vista, tale sviluppo è stato più efficace nell’ambito del fashion, per lo meno in merito alle dimensioni strutturali, rispetto a ciò che è stato, invece, in quello della scarpa» continua.

I distretti italiani della calzatura sono molteplici e con peculiarità proprie. È importante realizzare strategie di internazionalizzazione ad hoc?

«Sì, lo è, ma negli anni il concetto di distretto di specializzazione si è un po’ eroso. È vero che una specificità c’è sempre ma, facendo proprie alcune logiche del settore fashion, ormai le aziende calzaturiere tendono a non focalizzarsi solo sulla scarpa da uomo, da donna o da bambino. In primo luogo, si concentrano sul segmento per poi spostarsi nel mondo degli accessori o dell’abbigliamento. Una delle problematiche è la scelta delle destinazioni, non tutti i luoghi ripagano gli sforzi fatti.»

A questo proposito, non sono pochi quegli imprenditori che hanno dovuto “assestare il colpo” delle sanzioni nei confronti della Russia. C’è già un nuovo Paese a cui guardare?

«Dieci anni fa il mercato russo è stato una grande scoperta. Gli imprenditori marchigiani sono stati i migliori cluster, velocissimi a dare una risposta a un mercato crescente. Poi è profondamente maturato. C’è stato un incremento della competizione, i player non sono più solo italiani e sono cambiati i consumatori e i loro gusti. Si stanno raggiungendo quote della popolazione dirette su altre fasce di prezzo. Molto spesso si identifica la Russia con la sua capitale, ma ciò è riduttivo. Ora anche il mercato kazako si sta ritagliando il suo spazio. Siamo sempre nel territorio dell’ex Unione sovietica ma con regole e logiche differenti rispetto quelle che ci sono a Mosca.»

Parliamo di internazionalizzazione digitale. Quanto peso ha la dimensione dell’azienda nel suo sviluppo?

«Si tratta di una grande opportunità anche per le piccole imprese. Dagli studi che abbiamo fatto nel nostro laboratorio “Network Lab” (spin off UNIVPM n.d.r.), sono emersi diversi elementi. Per attrarre c’è bisogno di un percorso ben definito, che va dalla scelta del dominio giusto a una reale localizzazione dei contenuti, non solo dal punto di vista linguistico, ma anche culturale. Per esempio, chi scrive con ideogrammi naviga più ‘cliccando’ che digitando parole all’interno del sito. Al momento sono le aziende più strutturate, come Zalando, a interessarsene. Nello stesso mercato europeo che pur non comporta diversità culturali come nei Brics, queste hanno degli staff di persone che si occupano esclusivamente di contenuti e ciò vale anche per i social network.   Questa è un’opportunità che le imprese stanno cogliendo in maniera molto lenta, anche perché si lavora con budget limitati.»

A volte il termine “Made in Italy” è abusato ritenendo che all’estero basti citarlo per essere percepiti come sinonimo di qualità. Quanto c’è di vero, quanto di luogo comune?

«Dobbiamo fare una riflessione: non c’è un unico Made in Italy. Ovvero: nel mondo viene percepito in maniera molto diversa. In Russia continua ad essere particolarmente importante, almeno quanto il brand dell’impresa. Anche questo ha contribuito al grande successo dei prodotti marchigiani in Russia. In Cina, invece, c’è un’alta concentrazione di premium brand e il Made in Italy passa in secondo piano, cosa che non avviene per il cibo. Il Made in Italy è un valore che spesso è vittima di una legislazione frammentaria, in Italia come in Europa. Quella che regola l’ambito calzaturiero è distante da quella dei settori fashion e alimentare, con grosse complicanze.»

Un esempio virtuoso?

«Sono tantissimi i casi. Per esempio, Giuseppe Santoni ha portato un’azienda, nata come realtà relativamente piccola, a essere conosciuta a livello globale. Penso anche a brand meno noti, ci sono anche tante piccole imprese con 30-40 dipendenti che ormai hanno un buon presidio internazionale, riscoprendo mercati come la Germania. Più che alle singole imprese, guarderei al modello. Alcuni hanno aperto punti vendita e show room, altri hanno accorciato il canale distributivo.»

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