Riti del sindacato, miti del sindacato

L’antropologia culturale da tempo ha compreso la rilevanza per la  dimensione politica dell’homo sapiens sapiens dei riti. Secondo David J. Kertzer “è con la partecipazione ai riti che il cittadino di uno Stato moderno può identificarsi con più ampie forze politiche che possono essere colte solo in forma simbolica. Il rituale politico ci fornisce un […]

L’antropologia culturale da tempo ha compreso la rilevanza per la  dimensione politica dell’homo sapiens sapiens dei riti. Secondo David J. Kertzerè con la partecipazione ai riti che il cittadino di uno Stato moderno può identificarsi con più ampie forze politiche che possono essere colte solo in forma simbolica. Il rituale politico ci fornisce un modo per comprendere cosa accade nel mondo, poiché il mondo in cui viviamo, per essere compreso, ha bisogno di venire semplificato drasticamente”.

Tutto sommato le cose non sono molto cambiate nel corso del tempo. Anche nelle moderne società, caratterizzate dalla separazione della sfera religiosa da quelle economica e politica, i riti continuano ad essere fondamentali nella gestione del potere, malgrado l’interpretazione dei processi sociali che gli utilitaristi hanno cercato di far prevalere nel corso del tempo. Si tratta di ricercare una definizione di “rito” che vada oltre a quella data da uno dei padri della sociologia (Emile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa – Mimesis, 2016) : “Le regole di condotta che prescrivono come un uomo debba comportarsi in presenza del sacro”. Se si definisce il rito quale “comportamento simbolico ripetitivo e socialmente standardizzato” se ne coglie più compiutamente l’importanza ai fini della vita sociale ed organizzativa di ciascuno di noi.

Il simbolismo della politica, la misurazione coi riti

Quindi la politica, intesa nel suo senso più ampio, si esprime attraverso il simbolismo, che non può essere ridotto a mero abbellimento della realtà. Come sostiene con grande arguzia e un certo amore per il paradosso Edgar Morin l’uomo è 100% natura e 100% cultura, cioè comincia a definire la sua realtà a partire dalla cultura in cui nasce e dalle esperienze che ha. I riti, in quanto parte dei simboli, non sono altro che “uno scudo contro il terrore” – (Burger,  Parmalat. L. – The sacred canopy – Doubleday  (New York), 1967 –  attraverso il quale proviamo, non senza incoerenze, a dar significato al mondo che ci circonda, permettendoci di dare e darci un’interpretazione,  sempre parziale e contraddittoria, di ciò che vediamo e che viviamo. Naturalmente, l’antropologia culturale è ben consapevole del fatto che ciascuno di noi pensa e agisce come se il mondo si presentasse direttamente a sé nella forma in cui viene percepito. E ciò è assolutamente sano, dato che in caso contrario ci troveremo nella stessa situazione di chi “si sporge oltre il bordo delle cose e getta uno sguardo in un ultimo abisso” (Burkina,  K. – Language as symbolic action– University of California Presso (Berkeley), 1966.

Attraverso i riti ci misuriamo così con il caos dell’esperienza che ci avviluppa e creiamo una forma (provvisoria) di ordine. Siamo spinti dalla necessità di affrontare la frustrante indeterminatezza del mondo facendo il possibile attraverso il fissismo (ancora Kertzer) e l’atemporalità del rituale.

Le persone trasformano i simboli

È altrettanto vero che se i simboli forniscono alle persone un modo per comprendere il mondo, sono poi le stesse persone che producono i nuovi simboli e trasformano quelli vecchi. La possibilità di interagire con i simboli dati (e con i riti che ne sono parte) e di modificarli è, però, direttamente proporzionale al potere che si detiene. Attraverso la manipolazione di simboli e riti, i potenti possono rafforzare la loro autorità, poiché il tratto distintivo del potere è proprio nella capacità di costruire la realtà: esiste il potere del rituale. È, dunque, esperienza comune partecipare a forme rituali alla cui creazione non abbiamo minimamente contribuito.

La nascita del sindacato può essere vista come il tentativo di impossessarsi del rito, di creare un mondo simbolico alternativo a quello di chi all’epoca dell’industrializzazione dell’economia deteneva del potere. Gli ultimi, i privi di voce, coloro collocati invariabilmente al fondo della piramide sociale si davano la possibilità di utilizzare a loro volta il potere del rituale, con lo scopo di sottrare e sottrarsi all’egemonia della narrazione altrui. Il dagherrotipo creato da molti in più parti del mondo (come si direbbe oggi, un fenomeno bottom up) fu così potente che ancora oggi è difficile emanciparsene. Il mito delle origini è sempre presente tra noi e nell’opinione pubblica e origina un riflesso condizionato (anch’esso un rito?) proprio in chi si confronta con il fenomeno sindacale: invariabilmente “non sono più quelli di una volta”.

I primi sindacati: una funzione di servizio

Pochi sanno che le prime esperienze di sindacato nacquero nelle società di mutuo soccorso, forme di associazioni mutualistiche nate nell’epoca pre – welfare (e, naturalmente, in un’età ben lungi dall’idea di welfare aziendale), alimentate dagli stessi lavoratori con il fine di aiutare chi di loro fosse stato colpito da incidenti sul lavoro, malattia, vecchiaia o perdita del posto di lavoro. La storia delle società di mutuo soccorso è ancora tutta da scrivere, anche perché è noto che il senso agli avvenimenti viene normalmente attribuito dai vincenti, non da chi perde. Molti influenti ideologici coevi (tra cui Marx e Bakunin) considerarono quelle esperienze “paternalistiche” e non degne di un grande movimento di massa e, così, c’è ancora chi pensa che il sindacato non debba erogare servizi, quando, invece, fu proprio nel campo della tutela delle persone che nacque.

Il peso della massa

Ben più successo di critica (e di pubblico?) hanno avuto i rituali di massa, certamente tra i più efficaci per dimostrare che si ha il sostegno popolare (. Al di là del loro valore per comunicare la propria posizione al pubblico e all’avversario, la manifestazione e lo sciopero accrescono il senso di identificazione verso il sindacato e rafforzano l’antagonismo degli aderenti verso “i nemici”, che vengono rappresentati simbolicamente, dato che le manifestazioni di massa traggono la loro forza da un’attenta manipolazione dei simboli, sostiene ancora Kertzer, “oltre che dall’impatto emotivo prodotto dallo spettacolo di una moltitudine di persone riunite per una causa comune”. La poesia è spesso molto più efficace della saggistica nell’esprimere concetti complessi e profondi: molti ricordano quanto scrisse Sandro Penna sugli operai).

Eccoli gli operai sul prato verde

a mangiare: non sono forse belli?

Corrono le automobili d’intorno,

passan le genti piene di giornali.

Ma gli operai non sono forse belli?”.

 

La leadership di un sindacato: come si misura?

Quando si cerca di ricostruire sommariamente la storia sindacale o di valutare l’efficacia di una leadership lo si fa ripercorrendo le adunate organizzate, il numero delle persone presenti (ovviamente molto meno per la prefettura di turno), i pullman sopraggiunti, i cestini distribuiti. Meno frequentemente ci si chiede quali siano stati gli effetti politici dei suddetti riti di protesta di massa (il “mitico” articolo 18 non c’è più, malgrado i milioni riuniti al Circo Massimo).

È indispensabile riconoscere il valore che hanno avuto per la storia non solo del sindacato, ma anche del lavoro nel nostro Paese, tanti scioperi e manifestazioni (mia nonna Maria, che era del 1905, mi raccontava spesso la storia di un grande sciopero bracciantile e della carica dei regi carabinieri a cavallo). L’impressione (che non è solo tale) è che oggi questi riti siano meno partecipati e meno influenti di un tempo, è come se fossero una moneta svalutata. Le ragioni sono molteplici.

Il primo motivo è il cambiamento che ha attraversato le persone, l’emersione prepotente della soggettività, della  creatività, dell’attitudine artistica che ha il suo punto di origine nel ’68 e che , come ha ben compreso il sociologo francese Luc Boltanski, segna un’evidente linea di continuità tra quel periodo e l’affermarsi del nuovo capitalismo basato sulla conoscenza (Boltamski, Luc / Chiapello, Eve – Il nuovo spirito del capitalismo – Mimesis (Milano), 2014).

Una conseguenza di questo “ambiente antropologico” in divenire è la crescente difficoltà da parte delle persone ad aderire e a riconoscersi in soggetti collettivi di rappresentanza, spesso vissuti al pari di vestiti troppo larghi o troppo stretti per essere indossati comodamente. Benché il sindacato non faccia parte del milieu politico – partitico, si può certamente affermare che sia nell’orizzonte dell’azione politica così come fu definito da Hannah Arendt. E anch’esso risente della crisi della politica intesa in questo senso, come dimostrato, dati alla mano, dal noto sociologo Colin Crouch (Membership density and trade union power – paper, 2017) secondo cui si assiste in Europa e nelle economie del nord del mondo ad un declino della sindacalizzazione (meno tessere, anche se non sempre ciò corrisponde a una minore influenza nei confronti delle Istituzioni e delle Associazioni Datoriali). L’Italia tutto sommato fa eccezione, mantenendo un tasso di sindacalizzazione attorno al 30% (Fonte CNEL: il tasso medio è del 31,6% ed ha una variazione in base ai settori; si va dal 18, 8% del commercio al 55,5% delle attività finanziarie), inferiore solo a quello dei Paesi scandinavi, guarda a caso gli unici a non aver rinnegato le origini mutualistiche del sindacato (ancora oggi cogestiscono una quota parte rilevante delle politiche passive e di quelle attive per il lavoro).

Il secondo motivo è il cambiamento dell’economia, ciò che conosciamo come “processo di globalizzazione”, che ha incrementato la concorrenza sui mercati dando maggiore libertà di scelta al consumatore, processo che ha corrisposto alla necessità di riorganizzare la produzione secondo la logica del just in time (prima vendere, poi produrre) e della massima flessibilità. Benché non lo si dica con la necessaria forza, l’Italia fa parte di un ristretto club (costituito da soli cinque Paesi a livello planetario), capaci di vantare un importante surplus manifatturiero, stimabile in oltre 50 miliardi di euro/anno. Sarebbe, quindi, assolutamente controproducente una svolta trumpiana per il nostro Paese (la manifestazione di una delle tante “sindromi Tafazzi” nostrane), ma è chiaro che la globalizzazione ha contribuito a determinare una fortissima polarizzazione nell’economia e nel lavoro : da un lato le imprese globish, che spesso garantiscono ai lavoratori buoni livelli stipendiali e altri numerosi benefit, oltre a un’organizzazione del lavoro che tendenzialmente valorizza i talenti e la voglia di autonomia di molti; dall’altro quelli che il politologo Paolo Feltrin ha opportunamente definito i “settori cayenna”, tra i quali i più noti sono la logistica e la gig economy, in cui i diritti esistono solo sulla carta e ci si trova spesso a lavorare in condizioni para – schiavistiche. Con gig economy si intende un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze. Domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e app dedicate. Quale mese fa sulla stampa si parlò di gig economy a proposito del “caso Foodora”.

Il sindacato non può stare solo a guardare

Il sindacato, per come oggi si pensa, rischia di non essere utile a chi opera nelle aziende del primo tipo e di non raggiungere i nuovi schiavi, diventando sostanzialmente ininfluente, solo spettatore della crescita delle diseguaglianze. Quindi cosa ci si aspetta da un sindacato più adatto ai tempi? Meno trattative basate sulla logica della concessione strappata alla controparte (il rito del contratto concluso nottetempo, in sale un tempo fumose, consumando scontri epici con “il padrone”) a favore di una maggiore capacità di supportare chi rappresenta i lavoratori e le lavoratrici nelle aziende (i delegati), che debbono diventare il vero, unico centro dell’azione sindacale rinnovata. I sindacalisti hanno il compito storico di mettere nelle condizioni i lavoratori e i delegati di partecipare alla presa di decisione nelle aziende (principio previsto dall’articolo 46 della Costituzione), non lasciando al solo management i processi di riorganizzazione (la logica illuministica dell’imporre dall’alto spesso non funziona, dato che esistono le variabili intervenienti persone), accrescendo sensibilmente le proprie competenze tecnico – operative di lettura dei contesti nei quali ci si trova ad operare e di counseling. Rimane la necessità di un sindacato combattivo, in grado di entrare in campo con forza per tutelare i lavoratori e riformare i “settori cayenna” attraverso una lotta senza quartiere al caporalato, agli pseudo – appalti, alle paghe da fame, allo sfruttamento. Anche in questo caso è opportuno presentarsi con diverse modalità d’azione, agendo insieme ad altri soggetti sociali per ricostruire nuove comunità in grado di accogliere e dare risposte al rischio povertà di questi ceti sociali (abbandonando il mito del sindacato totipotente, in grado di far tutto ed essere ovunque).

Il terzo ed ultimo motivo è il cambiamento tecnologico. Quali effetti avrà l’incipiente digitalizzazione dell’economia (che non è solo Industry 4.0)? Spetta prima di tutto al sindacato chiederselo, evitando di indulgere nella tentazione di metter la testa sotto la coperta per non vedere. Una prima superficialissima lettura di ciò che sta accadendo ci fa dire, anche in questo caso, che il rischio è quello di una polarizzazione del mercato del lavoro: da un lato i professional, capacissimi di stare nel mondo dell’internet delle cose, dei big data e dei robot; dall’altro quelli che possono rendere disponibile solamente la loro fatica fisica, svolgendo mansioni semplificate e realmente usuranti. Tende a contrarsi proprio quella fascia lavorativa intermedia che era ed è il bacino di riferimento del proselitismo sindacale. Anche in questo caso è importante che le union del futuro abbandonino le ritualità collegate al contratto collettivo raccontato e vissuto solamente come matrice economica (“quanti soldi in busta paga?”), per accrescerne il ruolo di adeguamento delle professionalità al cambiamento tecnologico e alla nuova organizzazione del lavoro.

È anche vero che il tango si balla in due: le imprese e le associazioni imprenditoriali sono davvero pronte all’innovazione? O preferiscono pensare ad un sindacato ancora prigioniero di una ritualità in parte vuota perché non più efficace?

Il sindacato è ancora una bella storia, una delle poche organizzazione collettive veramente tra la gente, con grandi potenzialità, molte delle quali inespresse. Ogni volta che ci penso mi viene in mente la storia del barone di Munchhausen che, in groppa al suo destriero stava per sprofondare nella palude: “Senza fallo vi sarei dovuto morire, se la forza del mio braccio, afferrandomi per il codino, non mi avesse estratto dalla melma assieme al cavallo, che stringevo forte tra le ginocchia”. E’ possibile tirarsi fuori dalla propria particolare prospettiva e vedere il mondo “con nuovi occhi”, per così dire dall’esterno?

 

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