Decido di approfondire il tema e di parlarne con una giornalista che da sempre si occupa di questi temi. Elena Guerra, direttrice del periodico online Heraldo e promotrice del Festival del Giornalismo di Verona, ha svolto ricerche nell’ambito del giornalismo interculturale grazie al gruppo di ricerca Prosmedia, di cui è cofondatrice. Si occupa, tra le altre cose, di organizzazione eventi culturali al fine di favorire l’incontro di persone e culture diverse.
“È ormai innegabile che in Italia ci sia una stratificazione etnica e sociale del lavoro: in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, i lavoratori con background migratorio, pur essendo essenziali per il sostentamento e funzionamento di alcuni comparti produttivi (dall’agricoltura alle costruzioni, passando per l’assistenza alle persone) continuano a occupare posizioni marginali e meno tutelate”.
E il fenomeno sembra non migliorare. “Basta guardare i dati dell’orientamento scolastico, dal (già citato, N.d.R.) Dossier Statistico 2024 IDOS, che evidenziano come nei licei soltanto il 6,8% degli studenti sia straniero, percentuale che passa al 12,1% negli istituti tecnici, raggiungendo il picco del 17,7% nelle scuole professionali, il che prepara di fatto il terreno a un’integrazione subalterna nel mondo del lavoro”.
Una situazione che poggia le radici su aspetti culturali ben radicati, in particolare nelle Regioni da sempre più produttive nel mercato del lavoro italiano. Quali potrebbero essere le strade da seguire? “Una delle vie per un reale cambiamento sin da subito è il concetto di ‘inclusive workplace’ proposto da Michàl Mor Barak, docente americana di Social Work and Management, che invita a superare la logica dell’integrazione ‘formale’ e ad abbracciare un modello sistemico di inclusione, che tocchi tutti i livelli dell’organizzazione: dal micro (relazioni interne) al macro (rapporto con la comunità, con lo Stato, con il sistema globale)”.
Facile a dirsi. In pratica? “Secondo questa visione, un ambiente di lavoro inclusivo non si limita ad accettare le diversità al suo interno, ma le valorizza come leva strategica di cambiamento organizzativo e sociale. Si tratta di una sfida educativa, in un’Italia sempre più multiculturale, se per culture differenti intendiamo le diversità di genere, religione, o legate all’età e al gap generazionale, come i giovani precari o gli anziani espulsi dal ciclo produttivo”.
Sugli anziani (anagrafici o lavorativi) espulsi dal ciclo produttivo si potrebbe aprire un nuovo capitolo, più ampio, che riguarda la polivalenza, il mentoring, il coworking, e tutte le pratiche che oggi ancora latitano quando si parla di sviluppo organizzativo in genere. Limitandoci allo straniero in azienda? “Significa andare oltre i modelli di incontro-scontro fallimentari come l’assimilazione o la segregazione per guardare a un approccio interculturale basato sul Diversity management definito da Taylor H. Cox (professore che insegna gestione della diversità all’University of Michigan Business School, N.d.R.), che riguarda la reale comprensione degli effetti della diversità, per l’implementazione dei comportamenti, delle pratiche e delle politiche che rispondono a essa in modo efficace”.
In sintesi, riuscire a capire dove ci porta l’inclusione per cavalcare l’onda. E, cinicamente, vivere le organizzazioni con maggiore profitto.
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Photo credits: unioncamere.gov.it