Tito Boeri a Senza Filtro: “Se dipendesse da me cambierei definizione all’INPS”

Presidente Boeri, si parla tanto di immigrazione e si fa spesso propaganda sugli immigrati che toglierebbero il lavoro agli italiani. Mi spiega che rapporto c’è tra i contributi previdenziali versati dagli immigrati all’Inps e quelli che l’Istituto eroga ai lavoratori stranieri sotto forma di pensioni e prestazioni a sostegno del reddito?  “Il conto è presto […]

Presidente Boeri, si parla tanto di immigrazione e si fa spesso propaganda sugli immigrati che toglierebbero il lavoro agli italiani. Mi spiega che rapporto c’è tra i contributi previdenziali versati dagli immigrati all’Inps e quelli che l’Istituto eroga ai lavoratori stranieri sotto forma di pensioni e prestazioni a sostegno del reddito? 

“Il conto è presto fatto: mediamente gli immigrati versano nelle casse dell’Inps 8 miliardi all’anno e ne ricevono 3 tra pensioni e prestazioni a sostegno del reddito. E’ vero che questo rapporto potrebbe modificarsi col tempo, man mano che questi immigrati, che oggi in genere sono giovani, raggiungono l’età per andare in pensione. Ma è altrettanto vero che spesso gli immigrati dopo qualche anno tornano nel loro paese ‘regalando’ all’Italia i loro versamenti. Secondo le nostre stime complessivamente questo regalo vale 1 punto di Pil e ogni anno circa 300 milioni di euro”.

E’ l’ultima analisi di una conversazione che il coriaceo presidente dell’Inps Tito Boeri ha rilasciato a Senza Filtro. L’incontro è avvenuto a Milano nella sede dell’Inps di Piazza Missori, non distante dalla Bocconi dove Tito Boeri ha forgiato negli anni i suoi studi e la sua carriera accademica. Economista, è professore ordinario proprio in quell’Università – dove è stato dal 2012 al 2014 prorettore alla Ricerca oltre che Centennial Professor alla London School of Economics (ora in aspettativa). E’ responsabile scientifico del Festival dell’economia di Trento. Prima di assumere il suo incarico all’INPS è stato direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti. In precedenza è stato Senior Economist all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. Insomma di strada alle spalle ne ha e, da quando ha messo piede nelle stanze della presidenza dell’Inps, suo malgrado è sceso in trincea. E quando non parlava lui parlavano i dati elaborati dal Centro studi dell’istituto pensionistico. Proprio ieri le agenzie di stampa riportavano le sue critiche alla legge di bilancio messa a punto dal Governo Renzi.

Quando ci incontriamo però gli dico subito che non vorrei parlare soltanto di attualità politica e di polemiche con il Governo, a quello ci pensano i quotidiani e le agenzie di informazione. Vorrei trascinarlo in qualche riflessione sul pianeta delle pensioni.

Facciamo un passo indietro Presidente Boeri: nei suoi due anni di presidenza Inps, che idea si è fatto di questa fetta di società? Mi riferisco ovviamente al popolo dei pensionati.

“Mi lasci prima chiarire una cosa a cui tengo molto. Io non credo che l’Inps si possa definire l’istituto dei pensionati. Tenga conto che noi eroghiamo denaro per puerpere, bebè, giovani disoccupati e, naturalmente, pensionati. Dunque si tratta di aree diverse della società che pure usufruiscono dei servizi Inps. Io le dico sinceramente che se dipendesse da me terrei l’acronimo Inps ma cambierei la definizione in Istituto Nazionale Protezione Sociale. Mi pare più conforme al ruolo che questo Istituto svolge nella nostra società. Qualche volta mi capita di incontrare per strada persone di una certa età che mi riconoscono e mi dicono: ‘Presto diventerò suo cliente’. Io replico: ‘Lei è già mio cliente da tempo, perché come lavoratore versa i contributi’. Parlare di popolo dei pensionati, poi, è difficile perché non si tratta di un’area sociale omogenea. Consideri il fatto che tra i pensionati ci sono molte persone attive. E meno male che è così”.

Perché sostiene che è un bene? 

“Perché ci sono molti studi che dimostrano che mantenersi attivi fa bene. Uno studio del Journal of Health Economics, ad esempio, dimostra che il ritiro dalla vita attiva ha effetti negativi sul funzionamento cognitivo. E le assicuro che non è l’unico studio a sostenerlo”.

Qual è a suo parere il peso specifico dei pensionati in termini economici, sociali e politici?

“Il peso politico dei pensionati in Italia è immenso. Le racconto un episodio che, nostro malgrado, è diventato un caso politico. Come forse lei saprà, all’inizio di ogni anno le pensioni vengono adattate al costo della vita. Ciò significa che si fa una previsione del livello dell’inflazione e, anticipatamente, si adeguano le pensioni. Poi però c’è un consuntivo a fine anno e, nel caso in cui la previsione iniziale non corrisponda alla inflazione che si è effettivamente registrata nell’anno, la legge ci impone di fare degli aggiustamenti agli importi delle pensioni nell’anno successivo. Nel 2014 le previsioni di inflazione erano dello 0,3 % quindi abbiamo aumentato le pensioni dello 0,3 %. Quando poi, nel 2015, si è arrivati a consuntivo, abbiamo scoperto che l’inflazione era cresciuta soltanto dello 0,2 e quindi era necessario recuperare, nel 2016, quello 0,1 che i pensionati avevano ricevuto in più. Bene, il Governo ha dapprima deciso di posticipare il recupero al 2017. Poi, quando una settimana fa l’Inps ha annunciato in una circolare come sarebbe avvenuto il recupero di questo 0,1 per cento, rateizzandolo su quattro mesi – che per le pensioni più basse equivale a circa 6,5 euro in un anno e dunque rate di circa un euro e mezzo al mese – si è scatenato il putiferio, la stampa ci ha accusato di “Furto ai pensionati” , di “Colpo di mano”. Così il Governo, per evitare l’impopolarità, si è affrettato ad annunciare un decreto che farà slittare nuovamente il recupero di questo 0,1 % al 2018, così come aveva già fatto nel 2016. La sensibilità politica nei confronti delle pensioni porta il governo ad agire con una tale celerità che invece non c’è quando si tratta di intervenire su temi che costituiscono delle vere e proprie piaghe sociali”.

A cosa si riferisce? 

“In Italia c’è un problema molto serio di povertà, come ho avuto modo di sottolineare in una recente audizione al Senato. Guardando ai dati sui consumi è raddoppiata dal 2008 al 2015, peraltro la povertà ha un profilo generazionale essendo aumentata solo nella fascia di età sotto i 65 anni. Nonostante questi dati preoccupanti, continuiamo a non intervenire in modo sistematico per contrastarla. Trovo stridente il contrasto fra la velocità con la quale si è intervenuti per evitare il recupero di quello 0,1 per cento in più indebitamente concesso ai pensionati nel 2014 e la lentezza della legge delega che dovrebbe prendere provvedimenti contro la povertà, che invece giace in parlamento da più di un anno”.

In previsione dell’intervista con lei mi è venuto in mente il titolo film dei fratelli Cohen, “Non è un paese per vecchi”. Mi sa che l’Italia, invece, è un paese per vecchi. O sbaglio?

Se analizziamo la distribuzione del reddito in Italia viene da pensare che sia proprio così. Guardiamo qualche dato: il tasso di disoccupazione giovanile è quasi al 40 per cento, una percentuale intollerabile. Negli ultimi anni, poi, c’è stato un esodo di circa 100.000 giovani che ogni anno si sono iscritti all’Aire, l’Anagrafe Italiana residenti all’estero. Se si considera che i salari d’ingresso sono sempre più bassi rispetto ai salari medi e non vi sono prospettive di colmare questo divario iniziale nel corso della propria carriera, si capisce perché si dice che l’Italia è un paese per vecchi. Lo conferma anche il fatto che in Italia il reddito medio dei pensionati è l’80% del reddito di quello di chi lavora. Una percentuale molto alta se si considera ad esempio che negli Usa è il 50%

Direi che è uno scenario a dir poco sconsolante. Come immagina che dovrebbero cambiare le cose? 

“Voglio precisare che le riforme non spettano a noi ma alla politica. Noi abbiamo formulato proposte contenute in un documento dal titolo: “Non per cassa ma per equità”.

Quali sono i punti essenziali? 

“Ridurre il debito pensionistico, rendere più equo il sistema previdenziale, anche attraverso l’eliminazione dei privilegi e il ricalcolo contributivo dei vitalizi per cariche elettive. Consentire una maggiore flessibilità in uscita purché sostenibile, vale a dire che a pensioni percepite più a lungo devono corrispondere pensione più basse. Creare uno zoccolo minimo per combattere la crescente povertà”.

Quanto costerebbe questa riforma che voi proponete? 

“Nell’immediato fino a 5 miliardi, poi rapidamente darebbe luogo a risparmi crescenti rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, portando a una significativa riduzione del debito pensionistico.”

Senta Presidente ormai la battuta più in voga tra i giovani è: “Io in pensione non ci andrò mai”. Lei cosa risponde a quell’esercito di disoccupati?

Boeri arriccia il naso come per dire che non mi darà una risposta piacevole per le giovani generazioni. “Bisogna dire in primo luogo che oggi i giovani andranno tutti in pensione con il sistema contributivo. Un sistema molto meno generoso di quello retributivo. Se si aggiunge che molti giovani entrano nel mercato del lavoro tardi, con salari bassi, e spesso con frequenti interruzioni fra un lavoro e l’altro, che significa che versano contributi esigui o saltuari, non possiamo negare che per loro non c’è un futuro previdenziale roseo. Una parte non piccola delle giovani generazioni sarà costretta a lavorare oltre i 70 anni per ottenere una pensione. Vorrei aggiungere però che questo enorme problema sociale non si risolve con le riforme pensionistiche ma con la riforma del mercato del lavoro. E da questo punto di vista il Jobs Act ha migliorato le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro con circa 2 milioni e mezzo di contratti a tempo indeterminato. Credo che i contratti a tutele crescenti siano da questo punto di vista una buona cosa perché stimolano lavoratori e aziende a investire in formazione, premessa di produttività e salari più alti”.

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