Cambiamo le regole!

Nel giro di una generazione, 15 anni appena, i robot umanoidi sapranno gestire la casa meglio di un maggiordomo, assistere i malati con la competenza di un infermiere e la memoria diagnostica di un computer o gli anziani con la cura di una badante e la forza di una macchina. E tutto questo costerà quanto […]

Nel giro di una generazione, 15 anni appena, i robot umanoidi sapranno gestire la casa meglio di un maggiordomo, assistere i malati con la competenza di un infermiere e la memoria diagnostica di un computer o gli anziani con la cura di una badante e la forza di una macchina. E tutto questo costerà quanto uno scooter.

Impressionante, ma che ne sarà di quelle professioni che oggi sono, invece, molto ricercate? Alcuni studi, infatti, sostengono che l’automazione farà fuori un terzo dei posti di lavoro in dieci anni e quasi la metà in 20. Nel corso della storia ogni innovazione, ogni salto tecnologico ha portato con se la paura per ciò che si sarebbe potuto perdere, ma poi la società si è adattata, ha fatto anch’essa un salto evolutivo e ha imparato a non poter più fare a meno di quella tecnologia. “Il punto è proprio questo, ossia la velocità di adattamento dell’uomo: fin quando la tecnologia viaggiava su una scala di 10 anni c’era il tempo per un lento adattamento delle persone e delle professioni, oggi quella scala è di due anni e quindi la velocità di adattamento deve essere molto più elevata”. Lui è una delle migliori menti che abbiamo in Italia: Roberto Cingolani è lo scienziato che è stato scelto da sei premi Nobel nel 2005 per dirigere l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) che ha sede a Genova. Ed è proprio nel suo istituto che si sta sviluppando l’umanoide più evoluto al mondo.

L’innovazione tecnologica è una premessa necessaria per la nostra evoluzione, ma a noi spetta il compito di usarla con equilibrio ed etica.

“Storicamente basti pensare all’aspettativa di vita: nei paesi più avanzati guadagniamo ogni anno tre mesi di vita, grazie alla tecnologia che ci consente di avere migliori farmaci, migliore diagnostica, migliore conservazione dei cibi. Poi come contropartita dobbiamo gestire un sempre maggiore inquinamento e la sovrappopolazione e questo richiede nuove tecnologie che risolvano i problemi arrecati dalle vecchie”.

Indice di attrattività

In fatto di ricerca il nostro Paese ha una buona produttività scientifica, ma il singolo ricercatore finisce per scontrarsi con un sistema poco internazionalizzato, che offre scarse retribuzioni e difficilmente meritocratico, perciò se ne va.

“Bisogna cambiare le regole. L’Iit è la dimostrazione che la fuga di cervelli si può arginare”: il 46% dei ricercatori, infatti, provengono da 56 nazioni; 33 anni è l’età media e il 41% sono donne. “Il primo punto fermo riguarda le regole di reclutamento che devono essere le stesse del resto del mondo”. Il secondo, le condizioni di lavoro: “da noi nessuno è permanente, c’è competizione;  i salari sono più alti, ma con una parte variabile sui risultati e si viene valutati da un panel internazionale di scienziati. In sintesi, se l’Italia non è attrattiva per i ricercatori stranieri, allora ciò che si nota di più è la componente in uscita”.

“Inoltre, i nostri giovani ricercatori sono autonomi, perché a 30 anni sei al massimo della potenza neuronale e te la puoi giocare: la ricerca è un po’ come lo sport e gli scienziati sono una via di mezzo tra un artista e un sacerdote, passione e fede”.

L’innovazione tecnologica ci aiuterà a raccogliere alcune sfide importanti del nostro prossimo futuro: “nel giro di 20 anni saremo 9 miliardi di persone sul pianeta e avremo antropizzato il 15% della superficie terrestre, che è il limite oltre il quale non possiamo andare. Nei Paesi del G20 ci sarà un pensionato per ogni lavoratore e il 35% della popolazione avrà oltre 65 anni. Si faranno quindi più urgenti le sfide della sostenibilità della terza età, del welfare, del lavoro e dovremo affrontare il problema della redistribuzione delle risorse e dello sviluppo di tecnologie sostenibili. Gli scienziati stanno lavorando per trovare alcune di queste risposte, ma c’è bisogno di una grande cultura diffusa e della consapevolezza che non ci sono scorciatoie”.

[Credits immagine: datamanager.it]

CONDIVIDI

Leggi anche

Patire la luce per raccontarla

Quando l’autore di un romanzo decide di intitolare Tutta la bellezza deve morire, con un’affermazione esaurisce tutte le argomentazioni possibili sulla dialettica della “napolitudine”, un’energia che consacra e vampirizza contemporaneamente, ma che non riesce mai abbastanza a liberarsi da etichette culturali e pregiudizi storici, in una sorta di eterno ritorno che fa svanire l’idea di futuro. Sarà quella […]